L’Italia ha una grande occasione: può giocare un ruolo di punta nella ricostruzione della Siria. È in assoluto la prima volta che l’Europa può giocare un ruolo determinante nel National building di un paese musulmano disastrato da quattordici anni di guerra civile e semi distrutto da un regime di macellai. Paese in cui il regime non è caduto a seguito di una invasione militare come è stato in Afghanistan e in Iraq, ma in cui la dittatura ha subìto un collasso totale e improvviso. Un paese ormai senza esercito, se non le milizie e potenzialmente libero di decidere del suo futuro.
Con tutte le più rigide precauzioni del caso, pare possibile che siano infatti presenti in Siria le condizioni politiche per definire un progetto europeo che non solo porti la Siria a un regime politico se non pienamente democratico, quantomeno a livelli accettabili sul piano del rispetto dei diritti umani, dei diritti delle minoranze e dei diritti delle donne.
Un progetto basato su un chiaro scambio: massicci finanziamenti per una ricostruzione indispensabile, perché la Siria è allo stremo ed è ingovernabile se non arriva un enorme investimento estero, in cambio di ferree garanzie sul terreno dei diritti. Garanzie che, va detto chiaramente, forzino la sharia rigida delle milizie ora al governo e ottengano regole di governo e di vita politica e civile in linea con gli standard occidentali. Se questa fosse una strategia praticabile in Siria, l’influenza positiva sul Medio Oriente e sul Mediterraneo sarebbe dirompente.
Questo perché si sono saldati nella crisi siriana due elementi originali che hanno portato al regime change. Innanzitutto, il collasso del regime di Bashar al Assad è stato dovuto, non va dimenticato, alla distruzione materiale da parte di Israele delle uniche forze che lo tenevano in sella: Hezbollah libanesi e Pasdaran iraniani dislocati in Siria. Questo ha determinato, sul piano politico interno, la fine della nefasta influenza politica fondamentalista e antidemocratica del khomeinismo iraniano, simbiotico col regime degli Assad sin dal 1979. Ma la caratteristica originale della situazione odierna è soprattutto nel secondo elemento di novità: quella che pare essere l’evoluzione in senso moderato delle milizie jihadiste ora al potere a Damasco.
Evoluzione tutta da verificare ovviamente, sulla quale è necessaria la massima prudenza e anche diffidenza, che è stata operata e diretta da un personaggio poco noto e poco segnalato per il suo ruolo decisivo dai media, naturalmente uomo di massima fiducia da parte di Tayyp Erdogan: Hakan Fidan, dal 2010 al 2023 a capo del Milli Istihbarat Teshkiliati, il principale servizio segreto della Turchia, oggi ministro degli Esteri.
Questi, in raccordo con Tayyp Erdogan, sin dal 2011 ha inviato tramite i servizi turchi alle milizie jihadiste siriane consistenti aiuti militari e finanziari, tanto da diventarne l’indispensabile padrino. Can Dündar, direttore del quotidiano turco Ciumhuriyet, ha pubblicato nel 2015 la notizia di un filmato in cui si vedevano appunto camion militari dell’esercito turco carichi di armi fatti esfiltrare attraverso la frontiera turca siriana e diretti ad al Nusra, allora affiliata ad Al Qaida e avversaria dell’Isis.
Per aver pubblicato questo scoop, Can Dündar è stato costretto all’esilio e condannato a ventisette anni per divulgazione di segreti di Stato. Era tutto vero, naturalmente, e dietro a quella, come a molte altre simili operazioni, c’era appunto Hakan Fidan. Sempre Hakan Fidan è stato al centro della evoluzione dal 2018 in poi di al Nusra in un movimento che ha rotto i legami con al Qaida, e si è moderatamente mutato in una formazione in evoluzione, denominata Tharir al Sham, sotto la leadership di Abu Ahmed al Julani, cioè Ahmed al Shara che ha governato la regione di Idlib per otto anni.
I rapporti personali sempre più stretti tra Hakan Fidan e della sua personale rete, passata e presente, di relazioni e informazioni, e Ahmed al Shara e i suoi uomini, sono quelli che hanno fatto comprendere a questi ultimi, nel novembre scorso, che era l’ora di marciare prima su Aleppo e poi, senza sparare un colpo su Damasco.
Quando Donald Trump ha parlato di «una presa di potere ostile molto intelligente della Turchia in Siria», si è riferito esattamente a questa strategia di Hakan Fidan, che non a caso si è subito recato a Damasco, prima personalità straniera, assieme al nuovo capo dei Servizi turchi Ibrahim Kalin, dove ha tenuto intensi colloqui, e anche fatto una lunga passeggiata nel centro di Damasco con Ahmed al Shara. Questi, peraltro, ha fatto due dichiarazioni di grande e decisivo rilievo – se saranno confermate dai fatti – quando ha dichiarato che la «Siria non sarà la base per attacchi contro Israele».
In apparenza, un atteggiamento non jihadista ma di rottura con la funzione decisiva di aiuti reciproci con Hezbollah da parte del regime di Bashar al Assad. Ha poi assicurato che le milizie armate, tutte le milizie, verranno sciolte e i loro miliziani verranno inglobati nell’esercito. Una mossa che mira a eliminare uno sbocco libico e che soprattutto sancisce, se sarà applicata, che l’esercizio della forza deve essere solo dello Stato, non di minoranze armate.
Con tutte le più attente e rigide precauzioni del caso, l’Europa e l’Italia hanno ora l’occasione di verificare non solo col nuovo leader di Damasco, ma anche con Tayyp Erdogan e con Hakan Fidan, suo riconosciuto e influente padrino, ministro degli Esteri di un paese Nato, se è possibile avviare un progetto di investimenti europei in Siria in cambio delle garanzie di avvio di un processo democratico.
È una possibilità del tutto nuova, dalle molte incognite, ma anche una sfida stimolante all’Islam politico della Turchia e delle milizie siriane al governo. Ovviamente, al centro c’è non solo l’affidabilità incerta e claudicante di un ex jihadista che oggi fa discorsi da moderato, ma anche e soprattutto quella di un governo della Turchia che dal colpo di Stato del 2016 in poi ha radicalmente ristretto gli spazi democratici del paese. Ma in un’Europa che sconta le profonde crisi politiche interne di Francia e Germania, l’italia potrebbe guidare una cauta operazione europea di verifica delle condizioni reali per proporre al nuovo governo siriano e a quello della Turchia uno scambio tra garanzie di un nuovo assetto il più possibile democratico a Damasco e un massiccio piano di investimenti per ricostruire la Siria.
L’Unione Europea ha finanziato per centoventiquattro miliardi di euro l’Ucraina invasa dalla Russia e per dieci miliardi la Turchia per gestire la crisi dei rifugiati dalla Siria, ed è in grado di replicare lo sforzo in Siria. Da parte sua, peraltro, alle sue prime mosse l’estone Kaja Kallas, Alto Rappresentante dell’Ue per la politica estera, pare più adeguata del suo vaniloquente predecessore, il pessimo Josep Borrel, e si sta muovendo con prudenza in questa direzione.
Questo è dunque il momento di elaborare un progetto a carico della comunità internazionale che agisca su più piani, secondo la logica elaborata a suo tempo da Marco Minniti e continuata da governo Meloni col cosiddetto “piano Mattei”, che non è un protocollo scritto a tavolino, concluso e definito, ma un complesso processo in fieri. Un processo che la sinistra pigra e ambigua sul tema dei migranti fatica a riconoscerlo e che ha prodotto una diminuzione del sessanta per cento degli arrivi in Italia di migranti irregolari.
Più piani di intervento significa dunque mettere in campo investimenti per la ricostruzione di interi quartieri (tutta Aleppo est e la periferia di Damasco e tante altre zone) che hanno subito distruzioni per 3-400 miliardi di dollari, che sono stati bombardati dall’aviazione russa o distrutti dai panzer del regime; finanziamenti massicci per l’agricoltura che contribuiva per circa il trenta per cento al Pil del paese e occupava il ventotto per cento della popolazione, e alla piccola e media industria che contribuiva al ventisette per cento del Pil e occupava il 14,5 per cento della popolazione. Contemporaneamente la Siria, che aveva un tasso di iscrizione scolastica del novantasette per cento, offre le potenzialità migliori per investimenti esteri nella istruzione e nella formazione professionale per ottenere figure professionali qualificate per l’immigrazione in Europa.
Oggi però, dati Unicef, quattromila scuole sono distrutte e 2.400.000 bambini non hanno una scuola, mentre 1,6 milioni di ragazzi sono a rischio di abbandono scolastico. Dunque, investire nella ricostruzione del sistema scolastico siriano, può essere un’ottima occasione per preparare non solo forza lavoro, ma anche quadri qualificati per colmare la domanda di immigrazione europea (già oggi sono tantissimi gli immigrati siriani impiegati nella sanità tedesca).
Anche su pressione dei vari governi italiani, di vario colore, l’Europa negli ultimi anni ha dato segno, in primis Ursula von der Leyen, di avere finalmente compreso la necessità di elaborare e praticare una sua politica mediterranea fatta di massicci interventi politici ed economici. Oggi la crisi siriana offre potenzialmente uno scenario che può risultare decisivo in questa direzione.