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Nel dicembre 2019 mi sono recato a Hong Kong, dove l’atmosfera era pesantemente inquieta. Per mesi, i giovani erano scesi in strada per protestare contro l’ingerenza del Partito comunista cinese in quello che avrebbe dovuto essere un sistema democratico di autogoverno. Sui muri avevano scritto: «Salvate Hong Kong! Se noi bruciamo, voi brucerete con noi!». Ma tutti i manifestanti con cui ho parlato sapevano che il loro movimento avrebbe fallito: si trattava di un’ultima rivendicazione della loro identità democratica prima che essa venisse spenta da un “nuovo ordine” che considerava la democrazia un nemico interno.
In quella occasione ho incontrato un funzionario governativo che era in procinto di dimettersi e gli ho spiegato che stavo scrivendo un libro sull’ascesa del nazionalismo autoritario. «Negli Stati Uniti e in Europa il nazionalismo è un po’ diverso», mi ha detto. «Da voi i sentimenti nazionalisti si sono diffusi con la crisi finanziaria del 2008. È stato allora che il liberalismo ha iniziato a perdere il suo appeal, perché la gente ha pensato che non stesse funzionando. La narrazione del liberalismo e della democrazia è andata in pezzi e tutto questo si è poi riverberato anche in Cina. È stato allora che a Pechino si è iniziato a pensare: “Ma davvero dobbiamo seguire il modello occidentale?”».
Eravamo seduti in una sala d’albergo, circondati da quelle forze invisibili che il mio interlocutore aveva appena descritto, e cioè un capitalismo senza democrazia e delle élite culturali che si erano ormai allontanate dalla classe operaia. «I movimenti nazionalisti, sia in Oriente sia in Occidente, sono stati una risposta al crollo del modello occidentale», ha aggiunto. Tutto ciò che avevo sperimentato mi suggeriva che avesse ragione lui.
I miei otto anni di servizio presso la Casa Bianca di Barack Obama, che erano iniziati subito dopo la crisi finanziaria, mi erano sembrati un tentativo di nuotare controcorrente contro le spinte della politica globale. Un Partito repubblicano radicalizzato rifiutava anche in patria la democrazia liberale, facendo il verso a un leader di estrema destra come il primo ministro ungherese Viktor Orbán, che parlava di instaurare in tutta Europa una “democrazia illiberale” (che non è altro che un eufemismo con cui indicare il nazionalismo “sangue e suolo”).
In Russia, Vladimir Putin si era proposto di minare – se non di smantellare – l’ordine liberale guidato dagli Stati Uniti. E in Cina Xi Jinping aveva iniziato a modificare la strategia di Pechino, il cui obiettivo non era più un’ascesa nel contesto di quell’ordine ma la costruzione di un ordine a parte, svuotato dei valori democratici. Le capacità politiche e l’appeal culturale di Barack Obama gli avevano permesso di navigare in queste correnti, ma non era sempre riuscito a instillare queste sue qualità anche negli altri politici del Partito democratico.
La prima vittoria di Donald Trump ha messo in discussione le mie convinzioni da liberal sull’inevitabilità di un certo tipo di progresso: «L’arco dell’universo morale è lungo, ma si piega verso la giustizia» (la citazione è di Martin Luther King, ndr). Negli otto anni successivi, stando al di fuori del governo, ho parlato con esponenti dell’opposizione in tutto il mondo e ho sentito ovunque delle versioni della stessa storia: dopo la Guerra fredda, la globalizzazione ha intaccato il senso di sicurezza e di identità delle persone.
In Occidente, il neoliberismo – quella miscela di libero commercio, deregolamentazione e deferenza verso i mercati finanziari – ha svuotato le comunità locali arricchendo un’oligarchia globale. Nel frattempo, una cultura popolare omogeneizzata e spesso grossolana ha eroso le tradizionali identità nazionali e religiose. Dopo l’11 settembre, la guerra al terrorismo è stata abbracciata da autocrati come Putin, che l’hanno usata come pretesto per giustificare la loro sempre maggiore presa sul potere, mentre guerre eterne alimentavano migrazioni di massa. La crisi finanziaria si è abbattuta sul mondo come un uragano, distruggendo le vite di persone che già faticavano a tirare avanti, mentre i ricchi, alla fine, traevano profitto dalla situazione.
Inoltre, l’esplosione dei social media ha offerto un veicolo perfetto per diffondere lagnanze e teorie complottiste, consentendo così ai leader populisti di radicalizzare i propri seguaci con la precisione di un algoritmo. Il manuale per trasformare una democrazia in un’autocrazia “morbida” forniva istruzioni chiare: conquistare il potere con un messaggio populista rivolto contro le élite; ridisegnare opportunamente i collegi e le leggi elettorali; attaccare la società civile; riempire i tribunali di magistrati disposti ad avallare la presa del potere da parte degli aspiranti autocrati; arricchire i propri compari attraverso la corruzione; acquistare giornali e televisioni per trasformarli in organi di propaganda di destra; usare i social media per fomentare i propri sostenitori; confezionare tutto il pacchetto avvolgendolo nel messaggio “Noi contro Loro” – e cioè, Noi (i “veri” russi, i “veri” ungheresi o i “veri” americani) contro un variegato cast di Loro (composto da migranti, musulmani, liberali, progressisti, gay, George Soros e così via).
Il persistente sentimento ostile a chiunque fosse in carica era diventato così forte che ne fece le spese persino Trump che nel 2020 perse (seppur di stretta misura) le elezioni, complice la sua incapacità di gestire la pandemia. Ma, nonostante lo shock del 6 gennaio 2021 (giorno in cui avvenne l’assalto al Campidoglio da parte dei sostenitori di Trump, ndr), la politica americana ha continuato a essere pervasa da un forte malessere. E non c’è quindi mai stato alcun ritorno alla normalità pre-Trump. Da presidente Joe Biden ha abbracciato il protezionismo e la sua Amministrazione, per mezzo di ordini esecutivi presidenziali e di altre leggi, ha difeso il lavoro organizzato e si è occupata di politica industriale investendo nelle comunità più depauperate.
La comunicazione dei Democratici ha messo in guardia senza sosta gli elettori ripetendo che Trump rappresentava una minaccia per la democrazia e portando come prova la riduzione di alcuni diritti come quello di abortire. E quando, misurandosi con un mediocre gruppo di candidati repubblicani, i Democratici avevano ottenuto un sostanziale pareggio nelle elezioni di midterm del 2022, molti nel partito – compreso Biden – si erano persuasi che quel loro approccio stesse funzionando. Eppure, ora Trump ha solidamente riconquistato la presidenza.
Non pretenderei mai di conoscere tutte le risposte su che cosa sia andato storto, ma temo che i Democratici siano caduti nella trappola di difendere proprio quelle istituzioni – l’establishment – di cui la maggior parte degli americani diffida. Come partito interessato a una tecnocrazia competente, abbiamo perso il contatto con la rabbia che la gente prova nei confronti del governo. Come partito che premia i dati, abbiamo fatto leva sugli indicatori di crescita e di creazione di posti di lavoro per dimostrare che l’economia era in piena espansione, anche se la gente si sentiva schiacciata dall’aumento dei prezzi.
Come partito motivato dalla giustizia sociale, abbiamo permesso che la nostra repulsione per il nazionalismo cristiano bianco ci spingesse a fare una politica dell’identità con dei metodi analoghi ai loro, che si trattasse dei dibattiti sugli atleti transgender e sul trasferimento dei migranti nelle città oppure di svergognare inutilmente qualche prominente razzista Make America Great Again che non prova vergogna per niente. Come partito che si impegna affinché l’America guidi un “ordine internazionale basato sulle regole”, abbiamo difeso un approccio alla sicurezza nazionale che nel Ventunesimo secolo ha fallito ripetutamente e ci siamo mostrati ipocriti offrendo un sostegno militare incondizionato ai bombardamenti da parte di Israele sui civili di Gaza.
I Democratici hanno raccontato delle cose vere sull’inadeguatezza di Trump, sui risultati legislativi dell’Amministrazione Biden-Harris e riguardo al fatto che le donne debbano poter disporre liberamente del proprio corpo. Ma quando hanno parlato di economia alla classe media hanno spesso usato il tradizionale e collaudato linguaggio proprio della classe dirigente. In qualità di ex speechwriter, comprendo bene come sia molto difficile intrecciare tutti i fili. Fatto sta che, nonostante i suoi numerosi punti di forza, negli ultimi quattro anni Biden – in parte a causa della sua età e in parte per il ruolo che in tutto questo hanno avuto i social media – non è riuscito a ricoprire il ruolo del presidente che racconta con riconosciuta autorevolezza ciò che sta accadendo nella nostra nazione e nel mondo.
Inoltre, i leader dei Democratici al Congresso erano perlopiù persone anziane che avevano trascorso decenni a Washington e questo li rendeva inadatti a rivolgersi a un elettorato che pretendeva un cambiamento. Non è un caso, infatti, che negli ultimi vent’anni la politica americana sia stata dominata da due outsider, pur così diversi tra loro, come Obama e Trump. Negli ultimi mesi della campagna elettorale, Kamala Harris ha iniettato nuova energia e ha portato una notevole disciplina, rivitalizzando quella gioia collaborativa che è essenziale per la politica dei Democratici. Ma i suoi legami con un presidente in carica impopolare – a cui si è aggiunto quel contraccolpo globale post-pandemia che si è abbattuto indifferentemente su quasi tutti i governanti uscenti – l’hanno frenata.
È comprensibile che i Democratici abbiano difficoltà a capire perché gli americani siano disposti a mettere a rischio la nostra democrazia, ma ci sfugge che proprio la nostra democrazia è parte di ciò che li fa arrabbiare. Molti elettori sono arrivati ad associare la democrazia alla globalizzazione, alla corruzione, al capitalismo finanziario, alle migrazioni, alle guerre infinite e a quelle élite (di cui fanno parte persone come me) che parlano della democrazia come se fosse un obiettivo in sé e non come di uno strumento per mezzo del quale correggere le disuguaglianze, porre fine ai sistemi capitalistici che sono truccati, rispondere ai conflitti globali e promuovere un senso di identità nazionale condivisa.
Sì, tutto questo è iniquo, dal momento che le politiche dei Repubblicani, da Ronald Reagan a George W. Bush, hanno contribuito molto più di quanto non l’abbiano fatto quelle dei Democratici a creare questo disastro. Ma la crociata di Trump contro le élite che hanno guidato in passato il suo stesso partito – dalla famiglia Bush a Mitch McConnell – lo ha accreditato presso un pubblico affamato di sentenze di colpevolezza, mentre l’abbraccio della campagna di Harris alla figura di Dick Cheney ha trasmesso il messaggio opposto. Trump ha ottenuto la presidenza, ma non credo che manterrà le sue promesse. Come avviene sempre nel caso in cui un autocrate è interessato solo a se stesso, le sue “soluzioni” sono progettate per sfruttare i problemi invece di risolverli.
Inoltre, Trump è circondato da oligarchi che vogliono saccheggiare il sistema invece di riformarlo. Le espulsioni di massa e l’imposizione di dazi sono la ricetta perfetta per far salire l’inflazione. I tagli alle tasse e la deregulation aggraveranno le disuguaglianze. Le pulsioni dell’America First alimenteranno i conflitti globali, i ritardi tecnologici e gli squilibri climatici. Trump è il nuovo establishment, in questo Paese e a livello globale. E noi dovremmo sottolineare questo aspetto, invece di continuare a dipingerlo come un outsider o un intruso.
Dopo il naufragio nelle elezioni presidenziali, i Democratici devono sottrarsi all’impulso di comportarsi semplicemente come una forza di resistenza che condanna qualsiasi affermazione oltraggiosa di Trump. Pur opponendoci a Trump quando è necessario, dobbiamo anche concentrarci su noi stessi, su ciò che rappresentiamo e su come raccontiamo la nostra storia. Questo significa riconoscere – come mi ha detto il mio interlocutore di Hong Kong – che «la narrazione del liberalismo e della democrazia è andata in pezzi». Invece di difendere un sistema che è stato rifiutato, dobbiamo articolarne una visione alternativa adatta al tipo di democrazia che verrà.
Dovremmo miscelare il nostro impegno per un’America inclusiva dal punto di vista morale, sociale e demografico con una critica populista del sistema che il signor Trump sta ora gestendo, concentrandoci più sulle istanze di riforma che sulla semplice redistribuzione. Dobbiamo infatti introdurre dei cambiamenti per quanto riguarda il capitalismo americano e la sua endemica corruzione, gli affari sporchi delle imprese, l’affarismo della politica, la mancanza di regolamentazione relativa alle nuove tecnologie che stanno trasformando le nostre vite, il sistema dell’immigrazione che Washington ha fatto a pezzi e il modo di affrontare quella congrega di autocrati che sta spingendo il mondo sull’orlo della guerra e della catastrofe climatica.
Dopo aver perso le elezioni nel 2002, Orbán ha trascorso anni a organizzare “circoli civici” in tutta l’Ungheria – incontri di base, che spesso avvenivano nelle chiese – che, stilando un’agenda e consolidando un senso di appartenenza, hanno fatto sì che gli elettori lo riportassero al potere. In modo analogo, la prossima generazione di leader democratici americani dovrebbe pattugliare a ventaglio tutto il Paese, imparando dai sindaci che innovano a livello locale, ascoltando le comunità che si sentono dimenticate, individuando i luoghi in cui la democrazia multirazziale funziona meglio che nel resto del Paese, raccontando queste storie per supportare le loro proposte politiche e favorendo un senso di appartenenza a qualcosa di più grande, in modo che la democrazia non sembri più una sbobba ammannita dall’élite al potere, ma appaia come il rimedio giusto per risolvere i problemi che affliggono Washington e la nostra classe politica.
Noi non viviamo a Hong Kong, dove il movimento democratico potrebbe essersi ormai estinto. Le elezioni di midterm non sono lontane. E il mandato di Trump è limitato. I prossimi quattro anni saranno difficili e pericolosi, soprattutto per i più vulnerabili tra noi. Ma, se comprenderemo le tendenze globali che ci hanno portato fin qui, potremo far oscillare il pendolo politico nella nostra direzione e cogliere questo momento per costruire una nuova visione del liberalismo e della democrazia.
(Questa column è stata originariamente pubblicata dal New York Times l’8 novembre 2024).
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