Free CeciliaIl carcere di Evin è un inferno, ma nessun prigioniero rimane lì per sempre

Taghi Rahmani è il marito della premio Nobel Narges Mohammadi e dal 2012 è in esilio a Parigi continuando la sua battaglia culturale contro il regime in Iran: «Presto le forme di resistenza civile del popolo iraniano si trasformeranno in resistenza politica e porteranno alla nascita di un ordine democratico»

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«Vorrei dire a Cecilia di stare serena, che questi giorni passeranno presto. Deve sapere che ha la protezione del mondo, in molti a Evin non ce l’hanno. Noi in Iran abbiamo un proverbio: nessuno rimane in prigione per sempre. Dunque, se il carceriere le dirà il contrario, sappia che quella è la più grande bugia che possa dire». Taghi Rahmani, sessantasei anni, è il marito di Narges Mohammadi, attivista iraniana nonché premio Nobel per la pace del 2023, condannata a trentasei anni e nove mesi di carcere per aver combattuto l’apartheid di genere in Iran.

Giornalista, scrittore e professore universitario, Rahmani ha dedicato la sua vita alla difesa dei diritti umani e della libertà d’espressione nel suo Paese. Per il suo fervente attivismo è stato arrestato diverse volte, tanto da ricevere nel 2005 da Human Rights Watch un riconoscimento come reporter iraniano con più anni di carcere, circa tredici. Dal 2012, con i suoi due figli, Kiana e Ali, vive in esilio a Parigi. E da lì continua a portare avanti la sua lotta per il cambiamento in Iran. 

Taghi Rahmani, Cecilia Sala è da oltre due settimane a Evin, un carcere che lei conosce bene. In quali condizioni si trovano i detenuti?

Nel carcere di Evin non esiste la giustizia e i diritti dell’uomo sono totalmente negati. A differenza di altri carceri in Iran dove ai detenuti sono stati riconosciuti dei diritti, Evin è un luogo senza regole, o comunque con delle regole tutte sue. L’unico modo per ottenere qualcosa è quello di fare dei favori ai carcerieri, tutto viene concesso come premio. Dai qualcosa per avere in cambio qualcos’altro. 

È il simbolo dell’oppressione in Iran.

Esatto, è un luogo terribile. La sua costruzione è iniziata sotto lo shah Reza Pahlavi, che voleva realizzare una prigione per i prigionieri politici. Con la Rivoluzione Islamica, il carcere di Evin è stato chiuso per un po’, per poi essere riaperto e ospitare i nemici del regime. Negli anni si è ampliato parecchio, tanto da diventare grande come una città con degli edifici distaccati l’uno dall’altro. Al suo interno ci sono gli uffici del ministero dei servizi segreti e quelli dei Pasdaran, che lavorano in maniera indipendente. Da quanto ho capito, Cecilia Sala è nella sezione controllata dai Pasdaran. È parte di una trattativa per riportare in Iran Mohammad Abedini Najafabadi, fermato a Milano. La Repubblica Islamica non è nuova a questo tipo di operazioni per portare a casa i propri uomini. 

Secondo lei fino a quando Sala sarà detenuta?

Questo dipende da diverse condizioni. Prima fra tutte, la perseveranza dell’Italia e dell’Europa. Bisogna portare avanti gli sforzi diplomatici per ottenere la sua liberazione. Da qualche tempo la Repubblica Islamica è in dialogo con l’Occidente per trovare degli accordi sul nucleare. L’Iran dovrà fare delle concessioni e i politici occidentali dovranno mettere sul tavolo la libertà di Cecilia Sala. La mancata liberazione della giornalista potrebbe diventare un serio problema per la posizione politica di Teheran a livello internazionale.  

La Repubblica Islamica ha accusato Cecilia Sala di «violazione delle leggi islamiche». Cosa significa questa formula per il regime?

È un’accusa generica. Quando le autorità dicono che Cecilia Sala ha violato le leggi islamiche vuol dire che non hanno ancora trovato di che accusarla. Al momento non è chiaro quale la legge islamica sia stata violata dalla giornalista. Inoltre, va considerato che in Iran le leggi islamiche non sono accettate dal popolo iraniano. Di fatto, nessuna legge può essere realmente messa in atto: è tutto una scusa per controllare il popolo. 

Com’è stato il 2024 per il popolo iraniano?

È stato un anno molto difficile. L’elezione di Pezeshkian è stato un passo indietro calcolato da parte di Khamenei. Nel corso di questi mesi, il nuovo presidente ha fatto delle promesse che finora non è riuscito a mantenere. In generale, tra il popolo iraniano e la Repubblica Islamica c’è una distanza abissale. In Iran il popolo porta avanti una resistenza civile in maniera diffusa. Noi speriamo che si trasformi in una resistenza unitaria. Se questo dovesse accadere, sono certo che il governo di Pezeshkian incontrerebbe grandi difficoltà.

Perché?

Se ci fosse una resistenza unitaria in Iran, Pezeshkian dovrebbe decidere se dare le dimissioni o mettersi dalla parte della Repubblica Islamica. Per il momento, il governo di Pezeshkian è debole per via del fallimento economico, ma è ancora lontano dalla caduta.

Recentemente sua moglie Narges Mohammadi è stata dimessa per un periodo limitato dal carcere per motivi di salute. Come sta?

Narges è in uno stato d’animo molto buono. Mi ha detto che ha tre grandi obiettivi: dare sostegno alla società civile, dare energia alle istituzioni civili e continuare la lotta all’apartheid di genere in Iran e in tutto il mondo. Io sto cercando in tutti modi di impedire che Narges torni a Evin, perché sono sicuro che stando fuori di prigione sia molto più utile alla causa della libertà in Iran. 

La libertà è un sogno per molti in Iran. Cosa serve perché le cose cambino nel Paese?

La Repubblica Islamica è un’istituzione religiosa che è venuta fuori da un popolo religioso. Quindi chiunque si batta contro la Repubblica Islamica pian piano deve cambiare anche se stesso e le proprie convinzioni: e questa è una cosa molto difficile. Credo che perché ci sia un cambiamento politico in Iran deve esserci innanzitutto un cambiamento culturale degli iraniani. Oggi in Iran ci sono diverse forme di resistenza civile che presto si trasformeranno in resistenza anche politica e porteranno alla nascita di un ordine democratico. 

Il movimento Donna, Vita, Libertà è parte decisiva di questo cambiamento.

Certamente. Il movimento nato dopo la morte di Mahsa è un movimento culturale, non politico. Qualcosa di molto simile a quello che è stato per voi italiani il Rinascimento. Donna, Vita, Libertà è un movimento popolare formato dai giovani che scendono in strada per dire basta alla Repubblica Islamica. In questi anni il popolo iraniano sta subendo un’evoluzione: cambiano i modi di comportarsi, di viaggiare, di discutere, di vestirsi, di gioire, di piangere. Pian piano, emergono personalità con una mentalità nuova, che prendono le tradizioni iraniane e cercano di evolverle.

Quanto tempo passerà prima di vedere accadere tutto questo?

Il processo democratico è in atto, non saprei dire quanti giorni o anni prevederà. Ma la verità è che il popolo iraniano ha raggiunto dei livelli di maturità da cui non potrà più tornare indietro, mentre la Repubblica Islamica, nella sua proposta ideale, è stata sconfitta. E questo è molto importante nel passaggio alla democrazia per il popolo iraniano.

Anche i suoi figli la pensano così?

I miei figli amano l’Iran, anche se stanno crescendo in Francia. Immaginano un Iran in cui ci siano libertà e democrazia e sperano di poterci tornare un giorno. E stanno anche loro contribuendo in questa direzione al cambiamento del loro Paese. 

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