A gara 4 mancano meno di 48 ore e, per la prima volta dall’inizio della postseason, i Dallas Mavericks avvertono di essere davvero spalle al muro. Soprattutto perché, come dice Jason Kidd, nelle tre partite contro Miami nessuno è ancora riuscito a «fare un passo avanti per mettersi accanto a Dirk». Che sta sì giocando a un livello spaziale – 28,4 punti di media, 10 nei quarti quarti, nelle 18 gare di playoff disputate negli ultimi due mesi – ma che non può più permettersi di legare le chance di vittoria del titolo a un fadeaway sulla sirena dopo l’ennesima partita passata a rimontare uno svantaggio in doppia cifra. Anche se sta tirando con il 50,6% dal campo e di quei fadeaway ne mette praticamente due ogni tre che tenta in situazioni del tutto simili a quella dell’ultimo che aveva sbagliato.
Il giorno dopo, mentre sta tornando a casa dopo l’allenamento, Dirk inizia a sentire freddo. Siamo ai primi di giugno e a Dallas ci sono già 35 gradi nelle ore più calde della giornata, ma non vuole nemmeno contemplare la possibilità che si sia preso l’influenza, non alla vigilia di quella che potrebbe essere la partita piu importante della sua carriera. È solo stanchezza, gli basterà farsi una bella dormita per recuperare ed essere pronto. Al mattino, però, lo staff medico dei Mavs viene avvisato: Dirk Nowitzki ha la febbre a 38 e bisogna trovare un modo per metterlo in campo in condizioni accettabili. Adesso sì, qualcun altro deve fare un passo avanti. E deve farlo subito per evitare che si arrivi al punto di non ritorno, quello in cui a giocare contro non sono solo gli avversari ma anche la statistica: nessuna squadra nella storia delle Finals ha infatti mai rimontato uno svantaggio di 3-1 in una serie al meglio delle sette partite.
I primi tre quarti scivolano via sul filo di un equilibrio reso possibile dalla peggior serata nella carriera di LeBron James – 8 punti con appena tre canestri dal campo in 33 minuti giocati su 36 – e dalle risposte che Carlisle riesce finalmente ad avere da Marion (16 punti, 10 punti nel terzo quarto) e Stevenson (11 in dieci minuti nel secondo periodo) nel momento in cui Nowitzki viene richiamato in panchina per riposare, con la giacca da riscaldamento poggiata sulle spalle per evitare che i getti dell’aria condizionata dell’arena aggravino ulteriormente le sue condizioni. Nella partita di Dirk non c’è l’epica omerica del «Flu Game» di Michael Jordan a Salt Lake City nel 1997, ma piuttosto l’eroica e testarda ostinazione di chi vuole essere protagonista del momento che determinerà la sua legacy, costi quel che costi: «Queste sono le Finals Nba. Bisogna combattere, scendere in campo, competere e fare del tuo meglio per la tua squadra. Ed è quello che ho fatto» dirà qualche ora dopo in conferenza stampa.
La sua difficoltà però è qualcosa che si vede, si sente, si tocca a ogni tiro scentrato che tocca a malapena il ferro, a ogni palla persa, a ogni rimbalzo che gli viene strappato da un qualunque giocatore avversario che non riesce a tagliare fuori in una lotta sotto canestro che dopo l’intervallo lungo diventa selvaggia.
E quando, a 10’12” dalla conclusione della gara 4 più importante della storia dei Dallas Mavericks, Udonis Haslem piazza il jumper del 74-65 per gli Heat, Carlisle è costretto a chiamare timeout per fermare l’emorragia e provare a costruire sui suoi esterni l’ennesimo tentativo di rimonta, dopo che già nel primo quarto il «Jet, Jet, Jet!» urlato a Jason Terry in un altro timeout con una cadenza da mitragliatrice aveva tradito il senso di urgenza che animava il coach dei Mavs in quei momenti in cui quasi non sapeva più a chi chiedere le giocate di cui la squadra aveva bisogno.
E il Jet, che non lo aveva deluso nel primo quarto, non lo delude neanche stavolta: nel 14-4 di parziale che rimette Dallas in partita nei successivi cinque minuti i suoi punti sono 6, tanti quanti quelli di un Nowitzki che dopo aver sbagliato le prime tre conclusioni del quarto decide di mettere palla per terra e penetrare in palleggio ogni volta che può per provare quantomeno ad andare in lunetta con continuità. Mancano due minuti e 16 secondi quando sono proprio due suoi tiri liberi a dare ai Mavs quattro insperati punti di vantaggio da gestire (82-78) in un momento della partita in cui non si segna praticamente più se non a cronometro fermo.
Chi si esalta in questo clima da battaglia è Tyson Chandler. I suoi 4 rimbalzi offensivi nel quarto hanno garantito a Dallas una marea di punti da seconde opportunità e il suo lavoro in raddoppio su James in uscita dal pick & roll ha costretto gli Heat ad affidarsi corpo e anima a Dwyane Wade, che si è così ritrovato a dover gestire un numero spropositato di possessi per poter creare dal palleggio per sé e per gli altri. Così quando LeBron riesce a innescarlo sulla transizione con il suo classico passaggio a tutto campo da quarterback Nfl dopo una tripla aperta sbagliata da Stevenson, Flash non ha abbastanza forza nelle gambe per chiudere al ferro una schiacciata del tutto simile a quelle che esegue normalmente nel riscaldamento, anche a causa di una stoppata di Kidd che avrebbe del clamoroso se solo l’arbitro Marc Davis non la giudicasse fallosa.
A 30 secondi dalla fine e Wade sta per tirare due tiri liberi per pareggiare una gara che gli Heat possono anche scegliere di portare al supplementare e provare a far valere una maggiore freschezza atletica rispetto agli avversari, che hanno speso tutto solo per ritrovarsi lì, con un ultimo possesso offensivo da cui dipendono partita e serie. Praticamente Dwyane Wade da Chicago è diventato il Dirk Nowitzki che nel 2006 a Miami si era ritrovato tra le mani il pallone che avrebbe significato overtime e probabile 3-0. Solo che ancora non lo sa.
Se ne rende conto, probabilmente, dopo che il primo libero va a segno con un inquietante dentro-fuori tra primo e secondo ferro, come se sapesse già di aver contratto con il destino un debito che non sarà in grado di onorare. Il suo linguaggio del corpo prima che Davis gli riconsegni lo Spalding è identico a quello di Dirk in quella gara 3 così lontana e così vicina; un paio di passi verso il centro del campo dando le spalle al canestro, la frenesia del movimento con cui cerca di asciugarsi il sudore dalle mani pulendosi sulla canotta, la difficoltà nel riuscire a respirare senza tenere la bocca aperta, gli occhi che non guardano il tabellone fino al momento del tiro. Dal punto di vista stilistico il secondo libero è nettamente migliore del primo, ma c’è un debito con la sorte che va pagato e questa volta la danza del pallone sul ferro termina con Nowitzki che riesce a prendere finalmente un rimbalzo e a chiamare timeout: 82-81 Dallas, 29,3 secondi sul cronometro, palla in mano ai Mavs che schierano Chandler e quattro tiratori.
Sulla rimessa gli Heat scelgono di non pressare Kidd lasciandolo libero di ricevere a dieci metri dal canestro mentre Nowitzki usa il consueto finto blocco di Terry su James per andare a posizionarsi in post alto poco fuori dal pitturato in quella che è stata la zona in cui si è giocato ogni possesso pesante di quei playoff. Anche l’unico canestro dal campo del suo quarto quarto è arrivato partendo da quella posizione, un elegante appoggio al vetro di mano sinistra dopo aver eluso con il giro dorsale la solita asfissiante marcatura di Haslem che, per non rischiare, stavolta gli concede il lato destro presidiato anche da LeBron che nel frattempo ha seguito il taglio di Terry.
Dirk tiene la palla ferma per sette interminabili secondi. Studia la situazione, cerca di capire quanti passi gli serviranno per arrivare al ferro. Normalmente non sono mai più di due dopo la raccolta dal palleggio ma di solito va a sinistra, il che significa avere l’ulteriore possibilità di arrestarsi all’improvviso per poi tirare sulla testa del diretto marcatore o del giocatore arrivato in aiuto; in questa situazione, invece, ha bisogno di tutta la trazione possibile per poter avere abbastanza spinta sull’ultimo allungo evitando che qualcuno riesca a mettergli una mano sul pallone o, peggio ancora, a stopparlo subito dopo il rilascio.
Quando il cronometro arriva a 16,9 Nowitzki parte. Un palleggio, primo passo, raccolta, secondo passo, poi terzo; Haslem è sempre lì che cerca di spingerlo verso James che però non flotta. A quel punto Dirk si rende conto di avere altri venti centimetri di margine, e li sfrutta per darsi un ultimo slancio verso l’esterno del campo, avendo comunque abbastanza angolo per appoggiare sul lato destro del quadrato disegnato sul tabellone, oltre la mano protesa di Haslem e quella di Wade che cerca di stoppare quando il pallone è già dentro l’anello.
«Big time players make big time plays in big time games» disse un giorno Santana Moss, wide receiver di New York Jets e Washington Redskins; adesso, dopo la «big time play» del 41, i punti di vantaggio dei Dallas Mavericks sono tre e i secondi da giocare poco più di 14.
Wade, che ha segnato 30 punti nel nulla cosmico dell’attacco degli Heat, ne impiega poco più di cinque per aprirsi un’autostrada verso il canestro e schiacciare a due mani come avrebbe potuto, voluto e dovuto fare nell’azione che poteva valere l’82 pari qualche istante prima. Adesso, invece, Miami sarà costretta a fare fallo, mandare in lunetta uno dei tanti specialisti dei Mavericks – Carlisle ha mandato in campo anche Stojaković per Chandler, schierando Dirk da centro insieme a quattro esterni – e poi sperare di avere ancora abbastanza tempo per costruire il tiro del pareggio. Terry riesce a mangiare altri tre secondi e mezzo sul cronometro scappando via in palleggio verso la sua metà campo prima che James riesca a prenderlo e fargli fallo: 2/2 dalla lunetta, 86-83 Mavs, Heat che hanno poco più di sei secondi a disposizione.
Serve segnare una tripla in una partita in cui Miami ha tirato 2/13 dalla lunga distanza, quindi sul campo oltre ai Big Three e Mario Chalmers c’è Mike Miller, l’unico in grado di mandare a bersaglio una conclusione dall’arco nei 47 minuti precedenti. Proprio lui viene incaricato di rimettere in gioco per poi sfruttare una serie di blocchi in verticale e andare a posizionarsi in angolo, in attesa del pallone che Wade e James potrebbero fargli arrivare di lì a poco dopo aver giocato il pick & roll con Bosh.
Il segnale di partenza è il contromovimento che Wade fa tagliando verso l’interno per ricevere poco oltre la linea del tiro da tre: il passaggio a due mani di Miller è forte ma leggermente arretrato rispetto alla linea di corsa di Wade, che ha lo sguardo già rivolto verso il canestro e non riesce ad arrestarsi in tempo, perdendo quasi subito il contatto con la palla che rimbalza indietro, nella metà campo sbagliata. Kidd si avventa sul pallone pregustando il recupero che varrebbe la vittoria ma Wade ha un riflesso inspiegabile e si tuffa come se dovesse guadagnare l’ultima yard al Super Bowl, riuscendo con un unico movimento ad arpionare il pallone e a indirizzarlo verso Miller che si trova a nove metri dal canestro marcato da Chandler.
Mancano quattro secondi e in teoria qualche metro più a sinistra ci sarebbe Chris Bosh completamente libero di ricevere per un comodo piazzato piedi per terra in posizione centrale, ma nella memoria muscolare di Miller è già presente il movimento che lo porterà a prendersi la tripla dal palleggio tirando oltre le braccia protese di Chandler. Se è vero che i grandi tiratori Nba sanno già se il loro tiro entrerà non appena il pallone gli esce dalle mani, il modo in cui Miller segue con lo sguardo la traiettoria del suo assomiglia tanto al tentativo tardivo di correggere un clamoroso (per lui) errore di valutazione: la palla non tocca nemmeno il ferro, il cronometro arriva a zero, la sirena suona e sancisce la vittoria dei Dallas Mavericks nel delirio di un’arena in cui si fa fatica a distinguere la voce pastosa e inconfondibile di Mike Breen che urla in diretta sulla tv nazionale: «Che partita! Che serie!».