Avete mai sentito parlare di PolyStation? Vista da lontano, era una copia quasi precisa della PSOne, cioè la versione compatta della leggendaria PlayStation 1. Naturalmente la differenza tra la Play e la Poly c’era, ma esisteva a un livello invisibile per molti genitori, zii o nonni che non erano esperti di videogiochi. Oggi un appassionato prova solo dolore nell’immaginare la delusione di un bambino che, sotto l’albero, trovava l’hardware pezzotto, con giochi scadenti e una manifattura anche peggiore, ma la Poly ha anche un fascino controculturale. Ad esempio aveva uno sportello per il CD identico a quello della PSOne, che una volta aperto svelava un alloggiamento per cartucce in un twist retrofuturistico pazzesco. È anche affascinante che nessuno sappia con precisione quando sia comparsa o chi l’abbia inventata. Sappiamo solo che a un certo punto si è imposta come un dato di fatto alla nostra consapevolezza. Questo vuoto informativo la fa apparire come un negativo metafisico: se la PS1 è stata la luce, la Poly è stata l’ombra come conseguenza necessaria. Se la PlayStation ha generato allegria, allora il pezzotto è stata la quota di tristezza che ha riportato in equilibrio il mondo.
Come la PolyStation, ci sono numerosi altri regali che i giovani videogiocatori non avrebbero mai voluto scartare, tra titoli improbabili, trame scadenti e animazioni disarmanti.
Hugo
Trasformare un gioco interattivo della televisione, di quelli che giocavi da casa con il telefono, in un titolo per PlayStation: cosa potrebbe andare storto? Dal punto di vista commerciale, nulla. “Hugo” per PS1 ha venduto abbastanza, almeno a giudicare dalla quantità di seguiti e dal fatto che era letteralmente ovunque: sulle riviste specializzate, sui cataloghi, nei negozi. Ma quante persone sono rimaste deluse nel riceverlo, magari a Natale, un’eventualità resa più probabile da un appetibile prezzo ridotto? In un’epoca in cui i videogiochi venivano strutturati in maniera sempre più complessa, “Hugo” sembrava l’adattamento a colori di un Tiger Electronic della GIG. Era incardinato su una serie di meccaniche semplici semplici da eseguire a tempo: saltare, schivare, muoversi in verticale o in orizzontale e così via. A peggiorare il pacchetto, animazioni scadenti e ben pochi elementi in 3D. Molti pensavano che “Hugo” fosse una fregatura, ma oggi non si può fare a meno di notare che perfino lui è circondato da un alone di nostalgia nei commenti ai video di gameplay su YouTube. Tutto sommato, potrebbe aver assolto alla sua funzione di iniziare i bambini al gaming dolcemente.
Un gioco di pesca
Come molti, anche chi scrive vuole bene ai giochi di pesca. Il vero problema è che fanno quasi sempre schifo. “Fishing Derby”, uno dei primi giochi di Activision sviluppati dal fondatore David Crane, e Sega Bass Fishing, due giochi storicamente distanti ma animati dallo stesso spirito action, sono stati ben accolti, ma non si avvicinano a una simulazione realistica. In un certo senso, dimostrano che più ti allontani dalla cosa vera, più cresce il margine che consente di creare un videogioco decente. Con il calcio o il basket è diverso… perché? La risposta è che in quei casi si tratta di sport intrinsecamente emozionanti, mentre la pesca è bella per tutto ciò che gira intorno: gli amici, le birre, la pace, la natura, il tramonto. Se ben realizzata, un’opera interattiva è efficace nel trasmettere spettacolarità e adrenalina, ma è più difficile veicolare un senso di comunione contemplativa assolutamente speciale.
Questo aspetto apparentemente irrisolvibile è alla base dell’intero genere pescatorio: se consultate database delle recensioni come Metacritic, vi accorgerete che per decenni non c’è mai stato un titolo di pesca celebrato.
Condannate in partenza, le simulazioni realistiche sono spesso state sviluppate con due soldi, e vendute a prezzo ridotto. Ieri, i videogiochi di pesca hanno scontentato innumerevoli bambini, ma oggi il discorso è un po’ diverso. Ai più affezionati a quell’epoca d’oro, opere come Reel Fishing per PS1 regalano un’esperienza nostalgica definitiva grazie alle musichette atmosferiche e al tentativo di imitare una rigogliosa natura con i mezzi limitati degli anni Novanta. Il tutto si traduce anche in una lezione di vita: è possibile amare una cosa imperfetta, proprio perché lo è.
Giochi tratti dai film natalizi
Film iconico, videogioco dimenticabile. Parliamo di “Mamma ho perso l’aereo”, titolo originale “Home Alone”. Se l’opera cinematografica si contende, con “Una poltrona per due”, il premio per il film di Natale dei millennial, il gioco elettronico, uscito all’inizio degli anni Novanta per una pletora di piattaforme, è stato progressivamente dimenticato. E questo per una buona ragione: “Home Alone” infatti era brutto, un esempio da manuale di licenza non sfruttata adeguatamente, di occasione persa. Si sviluppa in due fasi, di cui la prima consiste nel raccogliere e piazzare le trappole e la seconda nel neutralizzare i ladri. Lo youtuber Angry Video Game Nerd lo ha recensito insieme a Macaulay Culkin, che nel film originale interpretava il protagonista Kevin, massacrando il gioco.
Altro film, altro adattamento irricevibile. Stavolta parliamo del videogioco del “Grinch”, direttamente dal film con Jim Carrey. Entrambi pubblicati nel 2000, andarono incontro a fortune di ordine opposto. Se il live action è stato mandato a memoria come un classico di Natale, la stessa cosa non si può dire dell’opera per PlayStation e Dreamcast, un platform che i recensori hanno raccomandato soltanto ai fan del Grinch, descrivendolo anche come ripetitivo e non abbastanza sfidante.
Per concludere, non si può che citare lui: il tie-in più disastroso di tutti i tempi, un fallimento così epocale che gli fu attribuita la colpa del crollo dell’intero settore dei videogiochi nel 1983 (in realtà, fu più complicato di così). È “E.T.” per Atari 2600, sviluppato a tappe forzate per incrociare la finestra degli acquisti natalizi del 1982. Sembra proprio che il Natale sia indirettamente responsabile di numerosi videogiochi scadenti, ma qui siamo siamo oltre. “E.T.” non era unico nella sua bruttezza, lo era nel carattere scenografico del suo fallimento. Le cartucce non vendute furono infatti seppellite nel deserto del New Mexico e riportate in superficie con una campagna di scavi. Oggi le trovate nei musei: ad esempio ce n’è una al Vigamus di Roma, ancora ricoperta di terra.