Cronache dal confineIl racconto dello sport nei media jugoslavi

In “I pionieri” (Bottega Errante), Sergio Tavčar racconta della nascita di Telecapodistria, una televisione che ha sede in Jugoslavia, ma che trasmette fino al Nord Italia e alle regioni adriatiche in piena Guerra Fredda. Una realtà poliedrica e contraddittoria che, nonostante i mezzi limitati, si occupa dei grandi eventi sportivi su scala mondiale.

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Quando cominciammo ad andare a seguire gli eventi sportivi sul posto, in Jugoslavia, venimmo anche in contatto con i colleghi delle altre emittenti jugoslave. Noi di Capodistria, che in effetti, tecnicamente, servivamo una minoranza molto esigua rimasta in Jugoslavia dopo le varie ondate dell’esodo del dopoguerra, eravamo più o meno l’ultima ruota del carro, la penultima essendo la tv di Priština in lingua albanese che serviva la comunità degli albanesi del Kosovo. E dunque spesso e volentieri dividevamo con loro gli uffici che ci venivano messi a disposizione dalla Jrt, per cui cominciammo a conoscerci e a fare amicizia.

Notammo subito che erano persone che, almeno per la nostra sensibilità, arrivavano più o meno da Marte. Per loro la famiglia, nel senso di un marito onnipotente con moglie a suo esclusivo servizio e soprattutto tanti figli, e l’appartenenza alla comunità, di tipo quasi tribale, erano una religione assoluta che non ammetteva eccezioni.

Le statistiche ufficiali jugoslave dicevano che gli albanesi del Kosovo erano in assoluto la gente più prolifica che esistesse in Europa, con una media incredibile di 5,2 figli per donna fertile. Detto di sfuggita, era questa l’esclusiva ragione per cui erano diventati maggioranza assoluta in un territorio sacro per la Serbia, innescando il problema che tante tragedie ha generato e che, onestamente, ancora oggi non vedo come possa essere risolto.

Che poi fare figli fosse la loro preoccupazione principale era evidente dal modo in cui ti salutavano quando non ti vedevi per un po’ di tempo. La prima domanda non era: «Come stai?», ma era: «Come va la tua vita sessuale?» (ovviamente la domanda vera era molto più succinta, in quanto usavano senza problemi il verbo che indica senza dubbi l’attività in questione), e se rispondevi in modo non entusiasta cominciavano subito a preoccuparsi seriamente per te.

Per quanto riguarda la sacralità della famiglia, un aneddoto che riguarda il nostro capo Slavko Prijon è estremamente esplicativo. Durante una trasferta, nell’ufficio che dividevamo con gli albanesi, Prijon batteva a macchina il testo per un servizio che doveva andare in onda poco dopo, per cui era indaffarato e nervoso. Un collega albanese lo interruppe facendogli una domanda abbastanza insignificante e Slavko sbottò: «Lasciami in pace, non vedi che lavoro!», condendo il tutto con la classica esortazione serba, famosa in tutto il mondo e per i serbi quasi un intercalare normale in ogni tipo di discussione, a rifare al contrario il percorso da lui fatto alla nascita.

Improvvisamente nella sala scese un gelo polare, con i colleghi di quello a cui si era rivolto Prijon che cominciarono a scambiarsi sguardi preoccupati. Il destinatario dell’esortazione si bloccò di colpo, non si mosse per un po’ di tempo, dopo di che batté con un dito sulla spalla dell’agghiacciato Slavko, dicendogli: «Slavko, da quanto tempo ci conosciamo?», e alla risposta che erano almeno quindici anni continuò: «Bene, è vero, e dunque farò finta di non aver sentito quello che hai appena detto. Ricordati che da noi queste cose si risolvono con il coltello!», facendo il classico gesto dell’apertura di un coltellaccio a serramanico.

Parlando del senso di appartenenza tribale posso testimoniare in prima persona che il mio amico e telecronista di basket di Tv Priština, Agim Kasapolli, ogniqualvolta andavamo in trasferta all’estero per qualche grande manifestazione, mai l’ho visto andare in un albergo. Qualsiasi, ma proprio qualsiasi posto in Europa dove si andasse aveva la sua sviluppata rete di mutuo soccorso e supporto kosovaro, per cui ad Agim bastava contattare le persone giuste in loco per avere vitto e alloggio gratis.

Dal punto di vista politico comunque devo dire che mi hanno sempre fatto abbastanza pena, soprattutto dopo l’acuirsi della tensione etnica susseguente all’avvento del potere in Serbia di Slobodan Miloševinel 1986, con i primi incidenti a Priština. Ci fu l’episodio storico degli scontri fra la polizia kosovara e i dimostranti serbi alla fine dei quali Miloševiproruppe nel suo famoso proclama: «Qui nessuno picchierà mai più un serbo!», e soprattutto ci fu l’episodio dello sciopero dei minatori albanesi che si erano sepolti in miniera in segno di protesta contro le politiche serbe nei loro confronti.

Purtroppo bisogna dire una cosa: per i serbi, gli albanesi del Kosovo, chiamati spregiativamente Šiptari (da Shqiptarët, cioè albanesi), sono per definizione gente inferiore in tutti i sensi rispetto a loro e dunque devono rimanere tranquilli e soprattutto sottomessi. Quando ci incontravamo con i colleghi albanesi e pensavamo che potessero dirci qualcosa, trovavamo un vero e proprio muro di omertà con bocche cucite a doppia mandata, e il loro imbarazzo era talmente palese che si sarebbe potuto tagliare con il coltello. Solamente qualche tempo dopo riuscii a percepire qualcosa.

Durante le Universiadi dell’87 a Zagabria bevevo un caffè con il collega Gani Ajeti, capo dello sport di Tv Priština, che a un dato momento mi disse: «Sergio, ma tu sai quando noi albanesi del Kosovo abbiamo visto per la prima volta un libro scritto nella nostra lingua? (Prima, sotto il dominio serbo, scrivere in albanese era un reato).

È stato nel 1941, quando sono arrivati gli italiani che tentavano di invadere la Grecia e ci hanno portato una grammatica e un dizionario che usavano nelle loro scuole elementari in Albania (che, per chi non lo sapesse, era sotto la sovranità italiana). Vedi dunque perché noi saremo sempre jugoslavi convinti, ma serbi mai e poi mai!».

A questo punto spiegatemi voi che leggete quale soluzione che escluda ogni possibile violenza reciproca si possa trovare per quella regione, grazie alla quale possa in un futuro magari lontano vivere in pace e armonia. Io personalmente proprio non la vedo.

Tratto da “I pionieri” (Bottega Errante) di Sergio Tavčar, pp. 119, 18,00€ 

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