Ventiquattro milioni di occupati: mai il mercato italiano in questo millennio è arrivato a toccare questa cifra, neanche nell’ultimo periodo d’oro delle economie mondiali, il 2007, poco prima che scoppiasse la bolla dei mutui immobiliari negli Stati Uniti e il crack Lehman. A guardare i dati sull’occupazione in Italia, sembra di essere all’alba di un nuovo miracolo economico. Occupazione ai massimi: a fine 2024 c’erano settecentottantamila occupati in più rispetto al 2019, prima della pandemia; occupati full time tornati ai livelli del 2007 e quota del part time in calo; disoccupazione ai minimi, aumento dei posti di lavoro vacanti nell’industria e nei servizi. Soprattutto inizia a scendere anche il tasso di disoccupazione giovanile, dove stavamo anche peggio della Spagna e lontanissimi dell’Europa che conta. E perfino i famigerati “neet”, not in education, employment or training, sono in deciso calo.
Allora, che cosa c’è che non va? C’è che non tornano i conti. Conti rigorosamente elaborati da Ref nell’ultimo quaderno congiunturale datato 7 gennaio. Mettendo in fila nel modo giusto i dati Istat, il giudizio è preoccupante: l’occupazione è cresciuta ma l’economia no. E questo, ovviamente, non è un buon segnale.
È un quadro complicato, in cui i dati contraddittori che emergono lasciano intravedere uno scenario decisamente anomalo. Allora, nota Ref, l’occupazione cresce, crescono le ore lavorate ma non cresce la produttività. Calano i disoccupati ma i salari restano quasi fermi, perché di fatto recuperano poco di quello che hanno perso negli ultimi due anni a causa dell’inflazione. Anzi, per il gioco degli scaglioni di aliquota, l’aumento nominale delle retribuzioni ha prodotto un aumento del fiscal drag, il drenaggio fiscale, di quasi diciotto miliardi nel lavoro dipendente e di ventisei miliardi nell’economia nel suo complesso.
Come dire – nota Ref – che in questo modo le casse pubbliche si sono ripagate i minori introiti dovuti alle minori tasse sul lavoro e alla riduzione del cuneo fiscale. D’altra parte, con il nostro debito pubblico e la massa di interessi da pagare ogni anno, margini di manovra non ce ne sono e si può ragionare se questa operazione non sia alla fine una redistribuzione di risorse che lascia il potere d’acquisto grosso modo invariato ma togliendo dalla precarietà quasi un milione di famiglie.
Ma la di là degli effetti sociali di questa operazione, resta il dato di fatto di che razza di economia sia quella in cui si creano più posti di lavoro ma non più ricchezza e benessere. La risposta è che artefici di questa strana e anomala ripresa sono le imprese. Imprese che hanno bloccato il turn over, cercando di tenere gli attuali dipendenti anche a costo di sottoimpiegarli, e al tempo stesso hanno assunto nuove figure professionali, più giovani e legate alle nuove mansioni frutto della digitalizzazione. Il tutto è avvenuto però non in una fase di espansione ma di crisi, con la produzione industriale, che non cresce più da quasi due anni.
Perché lo hanno fatto? Ci sono diversi ordini di ragioni. La prima è che le imprese, prima ancora dei dati Istat, stanno registrando gli effetti del calo demografico in termini di disponibilità forze di lavoro: cala, e lo farà sempre di più, la popolazione in età lavorativa perché quelli che ne escono per raggiunti limiti di età sono più di quelli che entrano. Questo rende più oneroso, in termini di costi e tempi, trovare nuovi candidati da assumere. Ossia: in condizioni normali, con una produzione industriale che non cresce, le imprese avrebbero ridotto l’occupazione. Oggi invece, in vista, o meglio, nella speranza, che la produzione industriale riprenda, fanno di tutto per tenersi il capitale umano in casa. Come si spiegherebbe altrimenti che con un settore industriale in crisi come l’automotive, a fine 2024 il livelli di cassa integrazione siano lo 0,3 per cento del totale, meglio che nel 2007, quando erano lo 0,4 per cento.
Quindi le imprese industriali stanno portando sulle spalle l’economia italiana. Sono loro che dal 2019 ad oggi hanno creato quattrocentomila posti di lavoro in più, gli stessi dei servizi (490mila), ma in termini di occupati i servizi, dopo la sbornia di terziarizzazione dei primi due decenni del nuovo millennio, valgono due volte e mezzo l’industria: 16,7 milioni di occupati contro 6,4 milioni.
Dalla pandemia in poi l’industria ha insomma ripreso coscienza del suo valore. Erano le manifatture che hanno continuato a produrre Pil anche quando gli italiani erano chiusi in casa nei lockdown. Ed è stato il settore industriale a cogliere al balzo l’opportunità arrivata con le risorse europee per la ripartenza dopo la pandemia e per la digitalizzazione per cambiare pelle definitivamente. E infatti la qualità degli occupati ha iniziato a cambiare: oggi i nuovi occupati, quelli nella fascia di età tra venticinque e trentaquattro anni con un livello di istruzione superiore al diploma, sono oltre il trenta per cento, mentre quelli a bassa qualifica (low skilled) sono al diciannove per cento.
Nel 2007 i numeri erano esattamente invertiti. Siamo ancora in ritardo rispetto al resto dell’Europa che conta, ma il recupero è in corso. È su questo recupero che si abbatte però la crisi innescata dall’impantanamento europeo sull’auto elettrica. La più grande trasformazione di un intero settore industriale che si vuole consumare in poco più di un decennio con l’imposizione dello stop definitivo ai motori termici nel 2035: una scelta varata quattro anni fa quando era già evidente il ritardo europeo rispetto alla Cina sulle batterie, che andava ad aggiungersi alla storica debolezza europea nel campo dei chip rispetto ad Asia e Stati Uniti.
Altri grandi settori industriali hanno vissuto nell’ultimo mezzo secolo mutamenti epocali, ma nessuno ha dovuto subire questo dirigismo imposto dall’alto. La telefonia mobile è passata dall’analogico al digitale senza che le filiere subissero conseguenze perché furono loro stesse a gestire la transizione. Lo stesso è accaduto con la tv. La stessa rivoluzione di internet è un qualcosa che dura da più di quaranta anni.
Gli ultimi dati sulla produzione industriale parlano di un rallentamento della frenata. A novembre siamo a meno 1,5 per cento, la metà di ottobre e di tutti mesi precedenti in cui il calo si era mantenuto costante sopra il tre per cento. Ma è chiaro che la parte del leone in questo calo la fa l’auto, che solo in Italia denuncia un calo di produzione vicino al quaranta per cento, a cui si aggiungono le crisi francese e soprattutto tedesca, mercato per cui lavora la fetta forse più consistente dell’indotto auto italiano, un settore da duemila imprese, centosettantamila addetti e sessanta miliardi di fatturato.
Adesso le speranze sono che l’Unione europea riveda le sue strategie sull’auto elettrica mantenendo gli obiettivi di calo delle emissioni ma scegliendo la neutralità tecnologica, scelta che ridarebbe fiato agli investimenti europei. Anche perché non bisogna dimenticare che paradossalmente proprio l’Europa è il sistema industriale più avanzato sui carburanti alternativi, sia sintetici (Germania) che biologici (Italia) che sono fondamentali per decarbonizzare altre importanti voci dei trasporti, come gli aerei, le navi e il trasporto pesante su gomma, che non potranno mai fare a meno dei motori termici.
L’auto non è la sola partita industriale che si gioca a Bruxelles: c’è anche la difesa, dove la Commissione von der Leyen II dovrebbe portare a compimento quanto già ipotizzato alla fine della scorsa legislatura europea, sulla spinta dei nuovi scenari indotti da Donald Trump. Poi, certo, ci sono le partite che sono solo italiane e di cui non possiamo incolpare l’Europa. A partire dagli impianti di generazione di energie rinnovabili: solare, eolico e biomasse, termine solitamente usato per evitare il sinonimo che fa paura a ogni amministratore locale, ovvero i termovalorizzatori bio. In Italia sulle nuove energie siamo indietro per colpa di una classe politica incapace di gestire la collocazione territoriale dei nuovi impianti, sia a livello nazionale che locale. Con la conseguenza di essere in ritardo sui piani europei (con rischio di multe) e di avere un costo dell’energia per imprese e famiglie tra i più alti d’Europa.
Già sbloccando queste due partite, auto e rinnovabili, per l’industria italiana ci sarebbero le prospettive di un balzo considerevole. Sia in termini di investimenti diretti, sia in quelli dell’effetto volano su diverse filiere collegate. Sarebbe l’avvio di una domanda industriale interna di livello superiore, guidata dalla digitalizzazione e dai sistemi di controllo di procedure complesse, come la produzione diffusa di energia. D’altra parte stiamo ancora scontando i costi pesanti di un sistema di incentivi alla produzione pensati guardando al secolo scorso invece che all’oggi e al futuro come sono stati i vari superbonus sull’edilizia.
È a questi orizzonti che guardano le imprese mentre accettano di farsi carico di una quota inedita di problemi occupazionali. Ma non possono reggere a lungo. Ma anche sul mercato i tempi sono stretti: per salvare l’industria europea dell’auto ci sono tre mesi. Oltre la primavera, altro che tenuta occupazionale, inizieranno a chiudere le imprese.