Accade spesso, non accade a tutti. Può accadere, nella carriera di un autore, di scrivere quel libro che segna un punto di svolta, il rovesciamento del paradigma, e di sorprendere con una nuova intensità anche i lettori più assidui e fedeli. Nadia Terranova torna oggi in libreria con “Quello che so di te” (Guanda), il suo romanzo più intimo, la storia di una famiglia, la propria, declinata a ritroso verso un passato prossimo e remoto, evocato, indagato e riflettuto, infine rimontato attraverso uno stile a volte crudo a volte lirico, e sempre ricco di grazia.
Dopo aver battuto la strada del romanzo di formazione, del romanzo psicologico e del romanzo storico, Terranova si confronta ora con l’autofiction e lo fa rendendo ancor più vivida la parabola di formazione fra psicologia e storia delle sue protagoniste. Nella città risorta sulle macerie che dal terremoto del 1908 si sono trasformate in cenere sopra cui edificare il presente, Messina, la città dove Terranova è nata e cresciuta, ecco una donna che gioca a localizzare il negozio fantasma del suo bisnonno, un puntino da ricollegare agli altri colmando i vuoti della memoria in cerca di un racconto senza ellissi.
Poco distante da lì, c’è il primo nucleo del manicomio cittadino dove viene internata la bisnonna di chi scrive e, scrivendo, ricerca una diversa comprensione di sé, come figlia, nipote, madre, moglie, donna e autrice. I romanzi letterari si differenziano dagli altri per l’universo formale attraverso cui prendono vita, un universo stilistico che Terranova costruisce con misura e consapevolezza, ma anche perché hanno l’ardire di gettare una fiammella fra le ombre di un presente intessuto di passati multipli.
Scrive Virginia Woolf nei suoi diari: «Il passato è bello perché nessuno riesce a rendersi conto dell’emozione quando accade. L’emozione si espande col tempo. Così non abbiamo delle emozioni complete nel presente, ma solo riguardo al passato».
Il presente è dunque il luogo d’elezione in cui avviene il passato, ed è dietro a questa suggestione che Terranova si accende, ora che è diventata madre e ora che sente che, a differenza di prima, non potrà più cedere a quel germe di follia insito fra le pieghe della sua famiglia. «Come si torna a scrivere dopo un parto, come si continua a essere spietati sulla pagina? Per anni mi sono sentita coraggiosa nell’illusione di uccidere, ma non posso scrivere per uccidere mia figlia. Un padre e una madre li puoi distruggere, un figlio lo devi soltanto salvare». Scongiurate le sirene dell’autocensura, Terranova si accinge a scalare il dorso della propria mitologia di famiglia. Non navigherà, da adesso in poi, sulla superficie degli eventi, ma al contrario finirà temeraria in osservazione dell’abisso.
Il giorno in cui Venera, la sua bisnonna, entra in manicomio dà il via a un’opera di ricostruzione che procede a tentoni, fra informazioni che si sgretolano dietro a verifiche più puntuali e altre che si contraddicono o addirittura si annullano. È un viaggio impervio, quello che procede a ritroso negli anni con l’obiettivo di riempire i silenzi e le intermittenze della memoria, un viaggio che Terranova restituisce ai lettori sul doppio binario della diegesi, il racconto in sé, e dell’extra diegesi, lì’ dove si muovono le riflessioni e le paure di chi scrive.
Un ulteriore piano drammaturgico che l’autrice maneggia con padronanza è quello intradiegetico, nel caso in cui l’Io narrante cade dentro il testo e lo smonta e lo rimonta a partire da nuove scoperte o false piste battute e abbandonate. Un romanzo dalla struttura complessa, dunque, che ha il merito di aggiungere a questa diversità di piani la prolificazione dei punti di vista: c’è la testimonianza diretta o indiretta, c’è la psichiatria di allora e quella di oggi, ci sono le superstizioni, l’astrologia e la magia. Una mappa dentro cui orientarsi attraverso i reperti fotografici dei documenti entrati in possesso dell’autrice, le definizioni mediche dei professionisti che Terranova interroga, e la fantasia.
«Esaltata ed esasperata mi rivolgo a Venera: noi sappiamo cosa siamo, felici e tristi insieme, anche se dicono che non è possibile». Il dialogo a volte esclude le voci interpellate con insistenza, e forse un tremito di paura, per diventare un passo a due fra la donna che scrive e la donna di cui si scrive.
Si giocano su questo rapporto impossibile, ma avverabile grazie alla letteratura, le pagine più felici del romanzo, sull’incontro fra due epoche lontane – diversi i modi di concepire il femminile, opposte le prospettive e le negazioni –, ma soprattutto sull’incontro fra due personali derive: una realmente accaduta, l’altra impossibilitata ad accadere. C’è una madre che soccombe alla crudeltà del destino e ce n’è un’altra che sublima quella sofferenza privata in storia, quel dolore famigliare nel dolore di tutti. A differenza di quanto si potrebbe supporre, tuttavia, il racconto non si esaurisce attorno alle madri – troppo facile sarebbe un j’accuse a rimarcare quanto le donne abbiano affrontato i giorni strette al giogo del patriarcato –, ma si estende anche agli uomini, mariti e padri.
Una delle scene più commoventi del romanzo è quella in cui il marito di Venera, a cui non è concesso il permesso di far visita alla moglie ma solo di guardarla quando sta insieme alle altre nella sala comune, si avvicina alla parete puntando un occhio allo spioncino. Da quel piccolo foro, l’uomo osserva Venera mentre prega o tace, la osserva imprigionato quanto lei in una distanza incolmabile, lontano dal passato condiviso e dal futuro che aveva immaginato.
È anche grazie a questa apertura al maschile, riflettuto da Terranova con curiosità e indulgenza, che il racconto può permettersi di non fare sconti alle condizioni delle internate: «Definire è utile, ma bisogna considerare l’ipotesi che la vita possa non rientrare in nessuna delle parole fin lì inventate dagli uomini». Ostinato e indocile come a volte è la vita, lo stile di Terranova ci porta dentro al punto di rottura di un’esistenza segnata dal lutto più feroce, e un frammento dopo l’altro ricompone quella linea di discendenza che da lì parte e che non mente e non imbroglia.
In un’epoca in cui le famiglie elettive hanno sostituito nel discorso pubblico quelle di sangue, Terranova compie il movimento contrario senza temere il già detto, ma accogliendo invece quanto di strabordante resiste dietro l’attraversamento di ogni soglia. “Quello che so di te”, più del resto, è in effetti questo: un libro strabordante.
Tratto da “Quello che so di te” (Guanda), 272 pagine, 19,00€