Una parola forse può descrivere la parabola politica di Vivek Ramaswamy. Anzi, due: meteora e delusione. Lo status di stella del firmamento trumpiano alla fine è durato poco meno di due anni. Nel secondo caso invece avevamo un intellettuale più articolato, commentatore del Wall Street Journal e critico del vittimismo bipartisan delle fazioni politiche americane. Poi è diventato un trumpiano di ferro, sposando tutte le sue parole d’ordine, rincarando la dose anche a colpi di attacchi personali controversi nei confronti di esponenti repubblicani più tradizionali come l’ex ambasciatrice presso le Nazioni Unite Nikki Haley nel corso delle primarie 2024. Sembrava dovesse diventare persino vicepresidente o almeno membro della nuova amministrazione Donald Trump. Invece tornerà mestamente in Ohio, correndo per la carica di governatore nel 2026, dopo essere escluso dalla guida in tandem con Elon Musk del Doge, il fantomatico (e finto) dipartimento per l’efficienza governativa che altro non è che l’ennesima commissione informale.
Capiamo un po’ meglio il personaggio: Ramaswamy è figlio di una coppia di origine indiana, papà ingegnere e mamma psichiatra, ex imprenditore nel settore farmaceutico e venture capitalist in un fondo d’investimento conservatore chiamato Strive Management. A partire dal 2020 Ramaswamy ha visto la sua stella ascendere nel mondo dei media di area repubblicana per le sue critiche al capitalismo woke che si nascondeva sotto una patina fatta di finte inclusività e sostenibilità per evitare le critiche da sinistra.
In un altro libro intitolato “Nation of Victims”, pubblicato nel 2022, definisce anche il trumpismo una forma rabbiosa di vittimismo, con radici profonde nella lost cause lanciata dai reduci sudisti della guerra civile americana verso la fine dell’Ottocento, dove si dipingeva un passato idilliaco del Sud benevolmente schiavista schiacciato dalla brutalità industrialista del Nord. Ovviamente ne aveva anche per i progressisti e il vittimismo woke, usando argomenti che ormai sono diventati di uso quasi quotidiano. All’epoca scriveva di «non voler scrivere l’ennesimo libro invano», cercando di far superare all’America le divisioni politiche reciproche «perdonando i propri difetti e andando avanti».
Poi a mano a mano si è posto prima come l’erede di Trump, che a inizio 2023 sembrava un politico bollito, superandolo con la freschezza della novità e idee più articolate, in seguito ne è diventato un fan sperticato con punte di piaggeria imbarazzanti, come a un dibattito del 23 agosto di quell’anno tra candidati alle primarie (senza Trump): alla domanda se avrebbero concesso la grazia all’ex presidente qualora fossero ascesi alla Casa Bianca, Ramaswamy ha alzato la mano più in alto di tutti. Qualche giorno dopo lo stesso tycoon disse in un’intervista con il giornalista Glenn Beck che il candidato era «molto intelligente e pieno di talento».
Solo che già allora non apprezzava il suo cercare la controversia. Sul cambiamento climatico, ad esempio, se all’inizio della sua carriera lo definiva come «non del tutto di origine antropica», all’epoca lo definiva come bufala tout court spinta dalle élite globali green guidate dal Papa di Davos Klaus Schwab. E così è stato per tutta la campagna elettorale: un martello del trumpismo che dimostrava con la sua storia personale che parte della comunità asiatica era con i repubblicani e con la loro visione di «successo per tutti» e di nuova «età dell’oro dell’America», in modo totalmente acritico.
Inoltre sempre più si era trasformato, mutuando l’idea dal suo socio in affari Peter Thiel, in un nemico giurato dello «stato amministrativo»: il governo federale andava rifatto alle fondamenta, ricreando le sue strutture con un modello ricalcato sul mondo del business. Idea non nuovissima a dire il vero, ma con Ramaswamy assumeva delle caratteristiche innovative legate al mondo del tech.
Poi è arrivato Musk e allora è cominciato il suo lento declino, sempre uno dei tanti sicofanti che gravitavano in quell’orbita sempre più affollata di big della Silicon Valley, fino a una nomina quale co-leader del Dipartimento dell’efficienza governativa (Doge) che sin da subito è apparsa con poca sostanza. Anche perché il soggetto in questione è entrato in rotta di collisione con il trumpismo lo scorso dicembre, quando ha difeso il sistema attuale di concessione di visti lavorativi ai talenti provenienti dall’estero dicendo che una cultura come quella americana «che celebra maggiormente la reginetta di bellezza rispetto all’olimpionico di matematica e l’atleta rispetto al primo della classe non può produrre le migliori menti».
Senza contare però che in realtà è proprio quel mondo fatto di mediocrità e di vacua attenzione al mondo delle celebrity uno dei pilastri del trumpismo. Una disattenzione che gli è costata cara, perché quella mediocrità che lui accusa è incarnata perfettamente dall’attuale presidente. E allora eccolo ripiegare, mestamente e senza far polemica, verso una candidatura a governatore dell’Ohio, dove l’attuale leader, il repubblicano Mike DeWine, non lo ha scelto come sostituto al Senato del neopresidente J.D. Vance. Perché anche fare una metamorfosi dei propri valori e del proprio credo, alla fine, può non pagare.