Camillo di Christian RoccaLIBERO DA DUE ANNI, LA VERSIONE DI VITTORIO FELTRI SUL GIORNALISMO

Milano. Libero ha compiuto due anni e il suo direttore, Vittorio Feltri, per festeggiare l’evento si è regalato una bella e comoda poltrona scelta con cura da un antiquario. La metterà nel suo appartamento milanese, accanto a un’altra che ha fatto la storia del giornalismo italiano, la sedia di pelle bordeaux che fu del mitico direttore del Corriere della Sera, Luigi Albertini. Scoprire come sia finita in casa Feltri, invece che in una teca di Via Solferino, spiega molte cose del feltrismo, quell’inconfondibile marchio di fabbrica che il giornalista bergamasco s’è inventato quindici anni fa quando assunse la direzione dell’Europeo e poi dell’Indipendente, del Giornale, del Borghese, del Giorno e dal 18 di luglio del 2000, appunto, di Libero. In quella poltrona rossa c’è tutto Feltri e il suo stile anglo-orobico che mischia realismo cockney e prontezza di riflessi bergamasca. C’è il suo amore-odio per il Corriere, la venerazione per i grandi giornalisti d’un tempo, specie quelli di spiccata inclinazione anglosassone ma al tempo stesso il gusto per la beffa e una robusta dose di cinismo. Successe questo. Feltri venne a sapere che a causa di un rinnovamento all’arredamento del Corriere c’era la possibilità di fare il colpo e portarsi a casa la reliquia direttoriale. Pensò però che se si fosse presentato in Via Solferino non gliela avrebbero mai ceduta, anzi si sarebbero insospettiti e non l’avrebbero mai più venduta. Allora si mise d’accordo con il rigattiere che avrebbe acquistato in blocco le suppellettili del Corrierone, e col sotterfugio si portò la storica sedia in salotto.

Mazzate al governo
solo grazie a certi nostri amici riuscimmo a riavere la corrente". Per due mesi fu così, ogni giorno ce n’era una. Feltri smise di fare il direttore e s’inventò manager. Alla fine di novembre si trovò un accordo con la famiglia Angelucci, ex editore di minoranza dell’Unità. Gli imprenditori romani acquistarono il cento per cento del quotidiano e ora Libero sta benone, anche grazie ai contributi della legge sull’editoria (di cui gode anche Il Foglio) che danno una mano a coprire un bilancio intorno ai 27 miliardi.
Libero è un giornale di centrodestra, ma nelle intenzioni del direttore cerca di non essere organico alla parte politica che predilige: "Cerchiamo spazi critici, vogliamo essere frondisti". Quando è il caso, dice Feltri, "do mazzate al governo". Lo farà se le grandiose promesse di infrastrutture e opere pubbliche si ridurranno alla costruzione del Ponte di Messina ("a che serve se poi in Sicilia non ci sono le strade e se tra Catania e Palermo ti devi affidare al Padreterno?") e lo ha fatto quando sono state varate la riforma del falso in bilancio, la legge sulle rogatorie e l’abolizione della tassa di successione. "Non erano leggi sbagliate, ma neanche una priorità per il paese".
convinto ad accettare le dimissioni del ministro". Il caso Scajola dà lo spunto per una riflessione sul giornalismo. A differenza del modello anglosassone dove c’è un rigoroso rispetto per le cose dette off the record, in Italia c’è la smania di rubare dichiarazioni, giudizi e battute a questo o quel politico di turno. Di più. Se, come è successo al Tg1, il giornalista rispetta la confidenza e dà l’esatto significato a una battuta volgare, allora insorgono i sindacati e i comitati di redazione denunciano l’ennesima minaccia alla libertà di informazione. Secondo Feltri, questo è uno dei peggiori vizi del giornalismo italiano: "Se qualcuno ti dice qualcosa in confidenza bisognerebbe avere maggiore rispetto. Anche perché una cosa è il gergo, il linguaggio scostumato che tutti usiamo in determinati contesti, un’altra è quella medesima frase stampata sui giornali. Se io mando ‘affanculo’ qualcuno è ovvio che non intendo che quello venga testé sodomizzato. Io quella frase l’ho detta, ma riportata letteralmente e decontestualizzata tradisce il mio pensiero". La stessa cosa, dice Feltri, capita con le interviste: "Spesso si usano delle metafore, si dicono delle cose paradossali all’interno di un discorso, ma il giornalista tende a estrapolare la frase a effetto e a carpire la buona fede dell’intervistato. E’ una cosa orrenda, il vizio peggiore del nostro giornalismo".

Dieci pagine di politica il giorno
Detto questo, Feltri difende le dieci pagine il giorno che i quotidiani italiani dedicano alle questioni politiche: "I giornali sono letti soltanto da un’élite, da meno di sei milioni di italiani, il dieci per cento della popolazione. A questi interessa la politica, e nient’altro. Tanto è vero che quando ci sono le elezioni o sale la tensione per qualche motivo, i giornali vendono di più. Negli anni 90, per esempio, con la cosiddetta rivoluzione italiana, il dopo Muro, Tangentopoli, la Lega, il crollo degli assetti istituzionali e l’avvento di Berlusconi i giornali andavano benone". Ora invece è un disastro. "Certo, e anche per colpa degli editori che si sono fatti ammaliare dal gigantismo cartaceo, dalle promozioni, dagli inserti che hanno poi cannibalizzato i settimanali e i mensili. E così i nostri giornali invece che imitare quelli stranieri che pubblicano poche cose ma serie e approfondite ne scaraventano trecento però ruminate. Ma al fondo c’è che il nostro è un giornalismo di idee, giuste o sbagliate che siano, mentre quello anglosassone è un giornalismo di fatti e di notizie, tanto è vero che da noi sono gli opinionisti e non i giornalisti che portano le notizie. Il paradosso è che uno come Gianantonio Stella non è conosciuto al grande pubblico".
Feltri si diverte molto a leggere l’Unità, "anche se spesso travisa anche l’evidenza", legge con grande interesse La Repubblica e trova sempre qualcosa di interessante sulla Stampa. Non legge invece Il Manifesto, "è di una noia infinita", e a proposito del Giornale giura di non avere nessun livore verso il suo ex editore o i suoi ex colleghi. Il giudizio più sorprendente è sul Corriere: "E’ sempre il grande Corrierone, ma è troppo gridato con quei titoloni a 9 colonne e la mania di dedicare 15 pagine ai grandi eventi".
Secondo Feltri il giornalista più sopravvalutato è Michele Serra: "E’ uno di indubbie capacità di scrittura, ma è diventato manieristico, tesse buona stoffa invece che comunicare qualcosa. Peccato abbia smesso di far ridere, credo che lo considerasse riduttivo. Se avesse continuato sarebbe potuto diventare quasi come Luca Goldoni", dice Feltri sapendo di dire una cattiveria. Altri sopravvalutati sono Curzio Maltese, "è volgare", e Paolo Franchi, "è uno Spadolini in sedicesimo, se lo leggi non capisci mai se va bene o se va male". Sottovalutato invece è Giampaolo Pansa: "E’ un fuoriclasse, su Cofferati è stato quello che ha scritto le cose migliori. Si meriterebbe di scrivere ogni giorno sulla prima pagina del Corriere, e invece è costretto a fare il vice della Hamaui".

Le inchieste e il pane e salame
Feltri e i suoi giornali sono noti per le inchieste, di cui Affittopoli è la più celebre. Lui individua un obiettivo, scatena i suoi cronisti, azzanna la preda e non molla la presa fino a quando non vede scorrere il sangue. Il feltrismo non è neanche il genere giornalistico ideale di Vittorio Feltri. "Mi hanno sempre affidato dei catorci. L’Europeo, che era moribondo, e Il Giornale, sceso a 113 mila copie e pieno di debiti". Per rianimarli, Feltri non ha usato il bisturi. "Dicono che ho trasformato L’Indipendente da una sala da tè in una bettola. E’ vero, ma nella sala da tè non entrava nessuno, e nella mia bettola invece il pane e salame c’era sempre". A Libero, ovviamente, ce n’è tantissimo. Feltri è orgoglioso, in particolare, della campagna sui compensi miliardari dei divi Rai. "Come sempre era uno scandalo che tutti conoscevano – dice – ma che nessuno scriveva. Noi abbiamo messo le mani sui documenti ufficiali e li abbiamo pubblicati". La campagna ha avuto successo, non solo per l’incremento di vendita in edicola ma anche perché uno dei primi atti del nuovo Consiglio di Amministrazione Rai è stato quello di affidare a una società di consulenza esterna la disamina di ogni singolo contratto stipulato in Rai. Feltri non fa cenno alla lunghissima inchiesta contro la Fiat che Libero ha condotto nel silenzio assoluto degli altri organi di stampa. Sui giornali di Fiat non si parla mai male, per tradizione. Feltri non gonfia il petto, e non perché se ne sia pentito. Tutt’altro. Soltanto che oggi non vuole infierire su un’azienda in difficoltà, specie ora che anche gli altri si sono accorti della crisi: "Giudicavano antipatica la mia inchiesta su Torino, ora sanno che avevo ragione. Ma io sono leale, e quando il mio avversario è in difficoltà smetto di menare. Lo feci anche con Bettino Craxi, al quale dedicai articoli cattivissimi quando era potente. Quando cadde non lo feci più, anzi lo difesi, diventai suo amico". Una cosa però Feltri non rifarebbe, ed è la pubblicazione delle fotografie dei pedofili e dei bambini. Per questo fu radiato dall’Ordine dei giornalisti (ora è stato riammesso) e costretto a difendersi in televisione. "Fu una scelta imprudente, che infrangeva un tabù. Ma fu male interpretata, spesso in modo malizioso e per questo ricevetti attacchi furibondi. Tra l’altro quel giorno, ora lo posso dire, io in redazione non c’ero".

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