Milano. La luna di miele tra Barack Obama e gli americani, secondo il decano degli editorialisti politici di Washington David Broder, è già finita dopo soli due mesi di presidenza. L’affermazione magari è prematura, anche perché Obama gode ancora di una grande popolarità e può vantare un indice di gradimento del sessantadue per cento, sebbene in lenta discesa e inferiore a quello che George W. Bush e Jimmy Carter avevano due mesi dopo il loro insediamento. E’ vero, però, che il presidente del sogno, della speranza e dell’unità nazionale non è riuscito a trasformare la sua struggente retorica ottimista in fiducia, decisioni e politiche capaci di invertire la rotta della crisi finanziaria, buone per saldare le fratture culturali del paese e in grado di convincere i nemici dell’America a cambiare atteggiamento. Così com’era successo durante la campagna elettorale dell’anno scorso, c’è ancora chi tra i suoi detrattori di destra e i suoi fan di sinistra teme o spera che dietro la facciata moderata di Obama si nasconda un politico radicale, ma c’è anche chi giura che il presidente, al contrario, sia un uomo pragmatico e post ideologico. Alla prova di governo, Obama non ha ancora fugato i dubbi, anzi ha alimentato ancor di più le ambiguità della sua piattaforma politica prendendo decisioni spesso contraddittorie (soprattutto sulle questioni di sicurezza nazionale) e non sempre coerenti con le promesse e le parole che le accompagnano.
Obama sembra aver perso il tocco magico, pare che i suoi annunci non facciano presa, quasi che le sue parole non siano più capaci di colpire come durante la campagna elettorale. La crisi ha il suo peso. Obama prima ha scelto toni apocalittici, per ottenere il via libera sul suo piano di salvataggio e rilancio dell’economia. La scossa non c’è stata, malgrado abbia ricevuto dal Congresso quello che chiedeva. Allora è passato a toccare le più congeniali corde dell’ottimismo. La sfiducia è rimasta, anche se le banche che voleva salvare improvvisamente hanno cominciato a rifiutare gli aiuti promessi. L’ultimo riflesso è quello populista, con la minicampagna contro i bonus ai manager delle compagnie in crisi e con le accuse al suo predecessore Bush (il quale ieri, più elegantemente, ha rifiutato di far polemica: “Il presidente merita tutto il mio appoggio”).
In due mesi Obama ha perso il sostegno di quel gruppo di opinionisti conservatori che, pur senza votarlo, avevano accolto con interesse e speranza la sua traiettoria politica, a cominciare da David Brooks del New York Times e da Michael Gerson del Washington Post. Settimana dopo settimana, decisione dopo decisione, Obama ha cominciato a deludere molti di quei commentatori, anche tra i suoi sostenitori, che avevano riposto grandi aspettative: Robert Samuelson, Paul Krugman, David Gergen, Howard Fineman, Maureen Dowd, Jim Cramer. L’ex funzionario della Casa Bianca di Bush, Pete Wehner, conferma il lento logorio obamiano spiegando che non c’è nessuno che oggi abbia un’opinione migliore di Obama rispetto a quando è stato eletto e nemmeno qualcuno pentito di non averlo votato perché ora pensa che stia facendo meglio rispetto alle aspettative.
La bocciatura degli economisti
I giorni in cui i media americani lodavano il gruppo di giovani geni assemblati da Obama per risolvere i problemi dell’economia sono molto lontani. I grandi economisti americani, interpellati dal Wall Street Journal, bocciano senza riserve il presidente e il suo ministro Tim Geithner. A qualche stagionato politico democratico capita, ancora anonimamente, di chiedersi se alla Casa Bianca sappiano davvero che cosa stanno facendo. Altri dicono di essere preoccupati che Obama stia facendo il passo più lungo della gamba. Il grande finanziere Warren Buffett, obamiano della prima ora, parla di “errori” e di “confusione” ai talk show di Rush Limbaugh, il conduttore radiofonico più odiato dalla Casa Bianca. Il clintoniano Bill Galston spiega che Obama sta sbagliando a voler fare troppe cose, non soltanto affrontare la crisi finanziaria, ma anche riformare la sanità e cambiare le regole sull’energia in un modo che Buffett ha definito “regressivo”.