Comincio a convincermi che la qualità di una democrazia sia sempre più una questione di linguaggio. E forse tra qualche anno capiremo che il frutto più avvelenato del berlusconismo è stato proprio questo: un’omologazione indistinta dei termini usati pubblicamente, una melassa confusa utile a rastrellare consensi e paure, una sciatteria strumentale e una povertà culturale spaventosa. Soltanto questa settimana il nostro premier ne ha infilate due davvero notevoli: la prima è il suo cavallo di battaglia «dittature dei giudici», la seconda è l’interessante accostamento contenuto in «zingaropoli islamica». Ma si possono scegliere due sintagmi del genere senza che l’opinione pubblica – conoscendo la realtà – s’indigni? Evidentemente sì, nell’Italia di oggi, sì.
Va sottolineato che un processo simile, seppure di altro segno, si verifica anche sul fronte opposto: di fronte al vergognoso episodio accaduto due giorni fa a Roma, quando alcuni ambulanti immigrati sono stati «classificati» dalla polizia municipale con un braccialetto e un numero al polso, abbiamo letto dichiarazioni che parlavano di Auschwitz a gogò, come se un paragone così improvvido fosse necessario per scandalizzarsi. Insomma, il nostro linguaggio è veramente malato e noi ci siamo assuefatti alla malattia. E Facebook, Twitter, mail, smartphone sono da questo punto di vista, purtroppo, assolutamente deleteri.
27 Maggio 2011