Lunedì 6 giugno Steve Jobs ha presentato il nuovo servizio di Apple, iCloud. La novità più dirompente che è emersa durante l’evento a mio giudizio è la funzione iTunes Match. iCloud è in fondo l’esito della rincorsa con cui Apple ha dovuto rispondere ad Amazon e a Google, che tra la fine di marzo e aprile hanno già promosso sul mercato americano alcuni strumenti del tutto analoghi: Amazon Cloud Player e music beta. In tutti i casi si tratta di uno spazio di 5 giga aperto per l’utente che voglia archiviare la sua musica e potervi accedere in qualunque momento tramite il device disponibile all’occasione, sia esso computer, smartphone o tablet. Amazon prevede che la musica ospitata in questo ambiente provenga dagli acquisti sul suo portale, mentre Google resta indifferente all’origine del materiale che viene alloggiato dagli utenti.
Mi sembra che iTunes Match rappresenti il vero scarto di Apple rispetto ai concorrenti che l’hanno preceduta in questo percorso: il servizio permette infatti di scambiare i file di cui l’utente è entrato in possesso attraverso qualunque metodo – lecito e soprattutto illecito – con la versione originale del brano presente nel negozio di iTunes. L’attivazione della funzione non richiede il pagamento di un “dazio” per ogni pezzo passato dalla clandestinità alla piena cittadinanza legale, ma un abbonamento forfettario di 25 dollari all’anno. Il prezzo è indipendente dalla mole di contenuti che vengono convertiti.
Apple può contare su una tradizione consolidata di rapporti con le major della musica – un privilegio che invece manca a Google. Steve Jobs ha quindi potuto elaborare un piano rivolto in modo esplicito alla pirateria, con lo scopo di trovare una mediazione tra utenti e detentori dei diritti di copyright. Secondo Jeff Price, fondatore di TuneCore, la mossa di Apple è diretta a «monetizzare la pirateria» e a rilanciare l’industria della musica: il suo merito è quello di stendere un ponte tra i bisogni degli utenti e le attese di profitto delle produzioni.
Secondo il New York Times, Steve Jobs avrebbe stretto un accordo con la Universal Music Publishing, con la Sony/ATV (che possiede i diritti su Michael Jackson), con la EMI e con la Warner Music Group. Il New York Post assicura che il costo per Apple ammonterà ad una forbice tra 100 e 150 milioni di dollari, che saranno distribuiti con quote tra i 25 e i 50 milioni di dollari per ogni etichetta. Infine, CNET stima che i profitti dell’intera operazione iCloud verranno distribuiti con queste quote: alle etichette andrà il 58%, ai publishers il 12%, mentre Apple tratterrà per sé il 30%.
Il fascino che i sistemi peer-to-peer esercitano sugli utenti deriva dall’abrogazione di qualunque rapporto di equivalenza tra ciò che l’utente possiede e ciò che può ricevere. La domanda che viene posta dal dispositivo non è anzitutto «te lo puoi permettere?» ma «cosa ti interessa?». La seduzione è fortissima. Se la nostra è l’era dell’accesso, come vuole Rifkin, le infrastrutture p2p sono la sua rappresentazione per eccellenza, come il panopticon lo è per il Settecento di Foucault.
La proposta di Apple riesce a catturare in qualche misura l’incanto che emana dal file sharing degli utenti. Anche in questo caso infatti non si invoca un principio di proporzionalità tra la misura di contenuti redenti alla legalità e l’esborso che rende possibile la trasmutazione. D’altra parte il miracolo esige la reintroduzione del discorso economico e il ripristino di alcuni dei parametri del mercato.
Questione diversa è capire se questo sistema limiterà o invece incentiverà il download illegale. La strategia sembra essere la ricerca di una tregua nella guerra dichiarata alla pirateria. Indipendentemente dal successo che sarà raggiunto dall’operazione, credo sia importante riconoscerle il merito di aver tentato una mediazione intelligente tra le parti della nuova cultura della musica. Come suggerisce Lessig, è necessario evitare che un’intera generazione sia etichettata come fuorilegge; il costo di questa guerra – che è vincente solo per le parcelle degli avvocati – sarebbe troppo alto. Sul file sharing tra gli utenti smette di pendere una condanna a priori, e i detentori dei diritti di proprietà vengono rimborsati con una quota forfettaria, che continua ad alimentare la sostenibilità economica del mercato. Si può discutere sull’equità della distribuzione delle quote, o sulla dimensione del valore economico complessivo che emerge dal servizio di Apple. Ma dal punto di vista del principio ispiratore, si tratta di un esperimento di indubbio interesse.