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Afghanistan, maggio 2011 – Inizia la stagione dei combattimenti
Durante la fase finale della raccolta dell’oppio e della marijuana cominciano gli scontri tra le forze della coalizione e i Talebani
Sebastiano Tomada Piccolomini è un fotografo che ho conosciuto grazie a Photo Vogue.
Piccolomini ha 25 anni, è nato a Manhattan, ha vissuto in Italia, ora è di nuovo a New York, città da cui parte continuamente per i suoi viaggi.
Il genere fotografico che predilige è il reportage.
Le sue fotografie sono molto toccanti, cinematografiche, esprimono sempre una opinione.
Mi sento arricchita dall’averlo conosciuto e lo ammiro per il suo coraggio.
Il video e le immagini qui pubblicate fanno parte di un progetto sull’Afghanistan da cui è appena tornato.
Mi chiedo come mai questo conflitto ci appaia lontano, irreale, anche se tutti i giorni si spara e muoiono civili e soldati.
Forse perchè le foto che vediamo sui giornali non sono abbastanza “orribili”?
È opinione diffusa che per attirare l’attenzione degli spettatori, ormai anestetizzati dal continuo bombardamento mediatico, il fotogiornalismo tenda sempre più verso la spettacolarizzazione delle tragedie.
Mi chiedo perché mai la fotografia non debba mostrare gli orrori. Pensare che non mostrandoli questi cessino di esistere è un’illusione.
Sicuramente è deprecabile il voyeurismo gratuito che mi fa venire in mente gli squallidi tour organizzati nei luoghi dei delitti.
Credo piuttosto che il criterio dirimente nel giudicare se una fotografia è opportuna o meno sia chiedersi se la foto è utile, se serve a qualcosa.
Giudicare stando seduti comodamente sul divano offesi da certe immagini è roba da benpensanti.
Il reportage, invitandoci a riflettere, ad analizzare le ragioni con delle domande su ciò che vediamo, è un genere fotografico fra i più nobili e necessari.
Oggi ho telefonato a Sebastiano per ringraziarlo di aver condiviso con noi questo video, fra le altre cose gli ho chiesto come mai di questa guerra non vediamo gli orrori? Forse non accadono?
Lui mi racconta del MEDIA SUPPORT CENTER, un dipartimento creato durante la guerra in Iraq per supportare i media, che in un certo senso agisce però anche come strumento di controllo per ridurre al minimo le possibilità che vengano scattate e pubblicate foto “scomode”.
Fare foto ai feriti e ai morti è illegale, ed effettivamente se non c’è niente da denunciare è meglio che sia così.
Il problema, mi racconta Piccolomini è che “se le foto le fai lo stesso e le pubblichi poi quando fai domanda per tornare in questi paesi a fotografare non ti danno più il permesso. Anzi, se le pubblichi mentre sei ancora in Afghanistan ti tolgono l’embedded e ti spediscono indietro”.
“Per come è fatto il territorio in Afghanistan è guerriglia come in Vietnam: ci siamo trovati in scontri dove sei a centro metri dal nemico una volta ogni due giorni, nella nostra unità l’anno scorso sono morti otto ragazzi, quest’anno due, la situazione si sta calmando”.
Quando concludo la telefonata con Sebastiano il mio pensiero va allo scandalo di Abu Ghraib del 2004.
Mi fa riflettere che il più grande scandalo scoperto con delle fotografie dall’inizio della guerra in Iraq sia scoppiato in seguito alla pubblicazione di snapshots amatoriali fatti dagli stessi soldati statunitensi non con l’intenzione di denunciare ma anzi con quella di avere un prezioso “souvenir” delle sevizie e umiliazioni inflitte ai detenuti iracheni.
Sono proprio certe fotografie che con la loro forza di documenti terrificanti e necessari hanno contribuito a creare il nostro senso etico.
Margaret Bourke-White di fronte ai cadaveri di Buchenwald scrisse: “Registrare adesso, riflettere poi: la Storia giudicherà”.
Ci sono foto che sono scolpite nella nostra memoria collettiva. Quelle dello sbarco in Normandia di Robert Capa, i cadaveri di Buchenwald di Margaret Bourke White, le foto a colori della guerra in Vietnam di Larry Burrows, la piccola vietnamita Kim Phuc in fuga da un bombardamento al napalm nel suo villaggio di Nick Ut, il vietkong freddato da un colpo di pistola di Eddie Adams, i corpi che si lanciano nel vuoto dalle torri gemelle dopo l’attentato del 9/11.
È lunghissimo l’elenco di bravissimi fotoreporter che con il loro coraggio e spesso a costo della vita ci hanno mostrato, raccontato, e denunciato gli orrori del mondo fornendoci gli strumenti per cercare di capire. Fra tutti un pensiero speciale va a Tim Hetherington scomparso da poco in Libia.
Documentare oggi, giudicare poi. Ma cosa succede se la foto è pure bella? Vorrei discutere con voi l’opportunità o meno che delle foto che parlano di guerra, tragedie, temi così delicati possano essere definite “belle”, “estetizzanti”, ben composte, tecnicamente ineccepibili.
Perchè se la fotografia che documenta l’orrore è ben fatta, di buona qualità, viene forse svilito il tema che tratta?
Le foto e il video pubblicati sono di Sebastiano Tomada Piccolomini