Riforma fiscale. Puntuale come le rondini in primavera, dopo lo doppietta di sberle collezionata dal governo nelle ultime settimane, è arrivata la formuletta magica che, secondo Berlusconi e compagni, potrebbe valere come ciambella di salvataggio in zona cesarini. Costa 80 miliardi e non ce li ho, ha messo le mani avanti Tremonti. Che però ha anche confessato di avere tutto chiaro in testa. Oggi la seconda puntata del serial. Il sistema più giusto, ha detto il divo Giulio, è “un sistema con tre aliquote”. Come quello britannico. Vediamolo, allora.
Nel Regno Unito il prelievo fiscale sul reddito personale – compreso il lavoro dipendente – si articola in tre fasce: da 0 a 35mila sterline all’anno lorde l’aliquota è del 20%, da 35mila a 150mila è del 40% e sopra i 150mila si passa al 50% – misura introdotta da Alistair Darling, ultimo Cancelliere del governo laburista, per racimolare denaro da iniettare nelle esangui casse dello Stato sballate dal piano di salvataggio delle banche. Detto questo, sulle prime 7.475 sterline si applica una no-tax area modulata progressivamente così da incidere maggiormente sui redditi più bassi. In sintesi: più si guadagna e più si riduce.
Fine? Non proprio. I britannici, in busta paga, devono anche pagare la National Insurance Contribution (NIC), ovvero la quota dedicata a finanziare lo stato sociale – sanità pubblica, sussidi alla disoccupazione, pensioni. In parte la paga il lavoratore e in parte il datore di lavoro – ma la proporzione è sbilanciata verso il lavoratore. Morale: in media vale un ulteriore 20%. Il paniere del Tesoro va poi completato con la Corporation Tax, la Capital Gain Tax, la VAT (ovvero l’Iva), l’accise sulla benzina, l’accise sulle transazioni immobiliari (la Stamp Duty), le tasse di successione. In più vi è la tassa locale – la Council Tax – che va a coprire i servizi offerti dall’amministrazione locale – come la raccolta dei rifiuti. Insomma, questo per dire che la tassa sul reddito non è l’unico contributo che i britannici affrontano per tenere in piedi la Nazione.
Ora, oltre al prelievo c’è la ridistribuzione. Ovvero quel sistema di benefits e credits che serve per sostenere i meno abbienti e aiutare le famiglie – anche middle class – che hanno figli. Ma questa è un’altra storia, che forse affronteremo più avanti. Il salario medio – dati 2010 – si aggira per i britannici intorno alle 25mila sterline lorde annue – uomini e donne. Il 10% dei contribuenti guadagna più di 50mila sterline l’anno mentre il 10% ne porta a casa poco di più di 14mila. Il picco dell’età produttiva va dai 40 ai 49 anni. Questo il quadro di riferimento. Vediamo ora il sistema italiano – grazie a un’ottima scheda ANSA.
La prima aliquota, quella più bassa, è ora del 23% e si applica ai redditi fino a 15.000 euro. Il meccanismo di detrazioni e deduzioni previsto per le diverse tipologie di reddito (lavoro, autonomo, ecc) e per i cosiddetti carichi familiari (coniuge, figlio a carico, ecc) realizza di fatto, all’interno di questo primo scaglione, anche un’ area di esenzione, la cosiddetta no-tax area. Man mano che si sale di reddito, le diverse quote aggiuntive vengono poi tassate con le altre quattro aliquote: del 27% (tra i 15.000 e i 28.000 di reddito), del 38% (tra il 28.000 e i 55.000), del 41% (tra i 55.000 e i 75.000), e del 43% per i contribuenti più abbienti con oltre 75.000 euro di reddito.
Proseguiamo. Per quanto riguarda l’Italia scoprire il reddito medio si fa subito un’ardua impresa. L’ISTAT ci fornisce mille tabelle ma trovare un valore di riferimento medio è impossibile – o almeno, dopo 30 minuti ho gettato la spugna: con l’ONS, la versione inglese, ci ho messo 3 minuti. Mi affido dunque a un pezzo del Corriere della Sera. Qui apprendiamo che la denuncia dei redditi media corrisponde a 19.100 euro mentre il salario lordo medio di un lavoratore italiano è di 26.191 euro. Allora, dopo questa orgia di numeri mi permetto una considerazione. Fatto salvo che anche in Italia, oltre alle aliquote dirette – che comprendono però la quota per lo stato sociale – vi è una ridda di prelievi indiretti – benzina, Iva, tabacco – e locali – come la tassa sui rifiuti e la defunta Ici – non è che l’erario sia meno esoso – specie coi ricchi – di quanto si pensa?
La no-tax area, per i redditi minori, è all’incirca sugli stessi valori di quella britannica. L’aliquota base è più alta, 23% contro 20%, ma comprende già, come abbiamo visto, la quota per il welfare. Per i redditi più alti – da 55mila a 75mila e quindi oltre – l’aliquota è del 41% e del 43%. Siamo in linea con quella della Gran Bretagna, che anzi la tagliola del 40% la fa scattare già sopra le 35mila sterline – e in questo caso aumenta di un punto percentuale il prelievo per il NIC. La batosta del 50% per i Paperoni è poi sconosciuta. Ergo: il vero ceto medio – da 35mila euro a 55mila di reddito – in Italia in realtà ci guadagna. Quello medio-basso – l’aliquota del 27% – perde invece qualche punto percentuale. La fascia minore è sostanzialmente in pareggio. I redditi alti – è bene mettersi in testa che ricevere oltre 4500 euro al mese lordi, ovvero 55mila l’anno, significa guadagnare uno stipendio corposo – sono pure trattati in Italia in linea con il prelievo effettuato in Gran Bretagna. A perdere qualcosa, volendo, è chi riceve fra i 75mila e i 150 mila – ma subito ci guadagna, e tanto, se ne prende di più.
Insomma, stando alle aliquote pure e semplici la differenza non è abissale – anzi, persino vantaggiosa. Il problema, semmai, è che in Italia si guadagna poco, la vera ricchezza si nasconde nel sommerso e nell’evasione, e che il grosso dei contributi versati per lo stato sociale viene divorato dalle pensioni. La Gran Bretagna non conosce poi l’atrocità dei contratti di serie A e di serie B e premia le aziende con una Corporate Tax più vantaggiosa. Il modello è ovviamente diverso e allungarsi in paragoni dettagliati può essere fuorviante. Chiuderei il già abbastanza lungo intervento con una provocazione: non è che, invece di accusare il fisco, che alla fine va bene anche così com’è, dovremmo concentrarci sulla riduzione della spesa pubblica, la riforma dei contratti di lavoro e del sistema previdenziale? E non è che da noi chi si lamenta tanto per lo Stato che “mette le mani in tasca ai cittadini” ha in realtà le tasche molto più profonde e più gonfie della media dei suoi connazionali e, vivesse in un altro Paese, dovrebbe sborsare un premio in alcuni casi persino più alto?
Per dire, eh.