Un’inchiesta giornalistica è la paziente fatica di portare alla luce i fatti, di mostrarli nella loro forza incoercibile e nella loro durezza. Il buon giornalismo sa che i fatti non sono mai al sicuro nelle mani del potere e se ne fa custode nell’interesse dell’opinione pubblica e anche nell’interesse della politica perché senza fatti la politica annienta se stessa.
Così parlava Giuseppe D’Avanzo, firma di punta di Repubblica, morto prematuramente qualche mese fa. Il buon giornalismo è quello che dichiara guerra al potere arrogante, marcio, ladro.
Il buon giornalismo, dunque, è prerogativa dei giornalisti. Comunque si chiamino, da qualunque parte vengano.
Stupisce e delude, quindi, leggere che Repubblica, volendo ricordare uno dei suoi migliori cronisti, decida di varare una borsa di studio per promuovere il giornalismo d’inchiesta (ai 4 vincitori borse da 10mila euro e 6 mesi di stage in redazione) limitandola però agli «studenti iscritti all’ultimo anno delle Scuole di Giornalismo riconosciute dall’Ordine». L’iniziativa, lo leggo dal pezzo di presentazione del bando ha l’obiettivo di «sensibilizzare e promuovere la tecnica e la metodologia del giornalismo d’inchiesta presso i giovani che si affacciano alla professione».
I giovani che s’affacciano alla professione, vorrei ricordarlo a chi ha scritto questo bando, non sono soltanto quelli delle scuole, numericamente inferiori. E non certo perché c’è stata una scrematura tale da garantire “la meglio gioventù di carta&penna”: semplicemente perché nella platea di aspiranti cronisti non tutti possono permettersi i soldi necessari a frequentare il master postlaurea. Che, è bene ricordarlo, in Italia non garantisce la qualità, ma solo un percorso tranquillo dal praticantato all’esame di Stato.
«Ciascuna scuola di giornalismo, a suo insindacabile giudizio, pre-selezionerà i migliori quattro lavori d’inchiesta che invierà al comitato di valutazione di Repubblica, insieme al curriculum dello studente».
Ci pensi? E se l’inchiesta fosse proprio così fastidiosa per la scuola di giornalismo? E se l’inchiesta fosse che so, sul rettore dell’Università? Emergerebbe da questo guado o sarebbe bocciata, declassata a inciucio, così come B. e i suoi tentarono di fare con le 10 domande? D’Avanzo ci ha insegnato che la trasparenza non si predica, ma si pratica, ogni giorno su ogni cosa.
Ecco, io spero che Repubblica ponga rimedio a questa gigantesca svista, offensiva per i tanti che – come un tempo feci io – decisero per orgoglio, voglia e per mancanza di mezzi economici, di fare la gavetta tavola-tavola, chiodo-chiodo, come diceva Eduardo De Filippo riferendosi alla necessità di conoscere il palco da calcare ogni santo giorno.