Shizuka Yokomizo – Dear Strangers
La mia adorata amica e giovane fotografa Neige mi ha chiesto cosa ne pensassi del lavoro di Shizuka Yokomizo “Dear Strangers” e così nel rispondere a lei vorrei condividere con voi le mie riflessioni.
Shizuka è un’artista giapponese, nata a Tokyo nel ’66, oggi vive e lavora a Londra.
La sua formazione filosofica ne pervade tutto il lavoro, che più che essere estetizzante pone delle domande sull’io e sul rapporto fra noi e l’altro.
In particolare “Dear Strangers” è forse il suo body of work più poetico.
Si tratta di fotografie prese dal 1998 al 2000 nelle città di Berlino, New York, Londra e Tokyo a perfetti sconosciuti immortalati di notte davanti alle loro finestre rigorosamente a piano terra.
Shizuka Yokomizo – Dear Strangers
Fin qui niente di nuovo, ma la peculiarità di Shizuka è che non si tratta di scatti rubati.
L’artista infatti aveva inviato lettere a questi sconosciuti invitandoli, qualora avessero accettato, a posare fermi per dieci minuti davanti alla loro finestra a una certa ora di un certo giorno.
La lettera iniziava con un paradosso “Dear Stranger”, che presuppone un’intimità, un prendersi a cuore qualcuno, solitamente “caro” si associa a qualcuno di conosciuto e non a un estraneo, proseguiva dando le istruzioni e specificando che non si sarebbero assolutamente incontrati, lei doveva rimanere una sconosciuta e, se fossero usciti per strada per incontrarla, non avrebbe scattato la foto.
Shizuka Yokomizo – Dear Strangers
“Dear Stranger, I am an artist working on a photographic project which involves people I do not know… I would like to take a photograph of you standing in your front room from the street in the evening. A camera will be set outside the window on the street. If you do not mind being photographed, please stand in the room and look into the camera through the window for 10 minutes on __-__-__ (date and time)… I will take your picture and then leave… we will remain strangers to each other… If you do not want to get involved, please simply draw your curtains to show your refusal… I really hope to see you from the window.”
Firmato: “Faithfully, Artist”.
Nessun nome, nessun indizio.
Shizuka avrebbe rivelato la propria identità solo in un secondo momento lasciando una stampa della foto che li aveva visti complici con il proprio nome e come essere contattata nella buca delle lettere del soggetto fotografato, in modo che quest’ultimo potesse dare o meno il proprio consenso all’utilizzo dell’immagine.
Shizuka Yokomizo – Dear Strangers
Il risultato è un lavoro che si interroga sul voyeurismo intrinsico della fotografia, sull’incolmabile distanza fra sé e gli altri, rimarcata dalla presenza delle finestre fra il soggetto e la fotografa.
Il fatto poi che le fotografie venissero prese di notte alimenta il mistero attorno alla figura dell’artista di cui il soggetto percepisce la presenza, ne intravede la silhouette senza però mai vederla veramente.
Ma il soggetto è complice, sa di essere fotografato, acconsente a questa mise-en-scène di un momento fintamente rubato, e questo cambia tutto.
Shizuka Yokomizo – Dear Strangers
L’idea di spiare le vite degli altri guardando attraverso le finestre è stata più volte utilizzata nelle diverse arti, ma in questo caso la riflessione è portata su un altro livello, chi spia chi?
La consapevolezza inverte i rapporti di causa effetto, la complicità sposta l’enfasi sul momento del contatto prestabilito fra il fotografo e il soggetto, non c’è niente di casuale.
Sembrano foto documentarie e invece sono “staged”, mi viene in mente Tina Barney con le sue bellissime, ed estetizzanti, scene familiari ricostruite dell’upper class americana, foto fabbricate in modo che sembrino “spontanee”, in realtà self conscious come gli studio portrait, ed ecco il cortocircuito e lo spazio per la riflessione.
Tina Barney – Marina’s room – 1987
Chi sono io in rapporto con l’altro? La distanza è imprescindibile, cos’è la promessa di “verità” della fotografia? Cosa cambia in me che prendo la foto e nel mio soggetto se entrambi siamo al corrente di quello che sta accadendo e al tempo stesso restiamo estranei e sconosciuti?
E noi che osserviamo la fotografia non siamo né più né meno voyeur di chi quella fotografia l’ha presa e di chi si è fatto fotografare?
A questo proposito mi viene in mente un lavoro extremely clever di un altro giapponese, Kohei Yoshiyuki, che con la sua serie degli anni ’70 “The Park”, ci invita a riflettere sul concetto di voyeurismo.
Kohei Yoshiyuki – The Park
Si tratta di fotografie sgranate in bianco e nero, prese in tre parchi di Tokyo dove i giapponesi si ritrovano di notte per incontri clandestini sia eterosessuali che omosessuali e dove ci sono altrettanti spettatori che si nascondono fra i cespugli a guardare e qualche volta a partecipare.
Per disturbare il meno possibile gli avvenimenti Kohei utilizzò una 35mm, pellicola infrarossi e flash.
Kohei Yoshiyuki – The Park
Guardando le fotografie vi renderete subito conto che più che parlare di sesso parlano del voyeurismo, ed è proprio questo che le rende ancora più accattivanti ai nostri occhi perché in un certo senso ci siamo anche noi in quelle fotografie, parlano di noi, certo non siamo fisicamente nello scatto ma il nostro punto di vista di osservatori curiosi è un’esatta replica dell’atteggiamento dei guardoni dei parchi.
Queste fotografie colgono il voyeur che c’è in noi in flagrante, ma non è poi quello che sempre accade con la fotografia?
E tornando a Shizuka Yokomizo, l’artista rimanendo anonima in un certo senso diventa tutti noi.
Siamo noi che guardiamo dentro quelle case ed è a noi che i soggetti fotografati indirizzano la loro intenzione.
“Faithfully, Stranger”.