L’ampio ventaglio di “liberalizzazioni” varate dal Governo Monti ha dato il via alle consuete giaculatorie contro l’imminente strage sociale. Non è una novità: si tratta dell’ennesima validazione del detto di Bastiat, per cui l’Idra dalle cento teste del pregiudizio economico è dura a morire.
Per il momento, però, non vogliamo fornire un’analisi, ed una critica, alle singole misure, ma limitarci a fornire una spiegazione da troppo tempo dovuta da chi, come chi scrive, si allinea tra le fila (oramai sempre più sparute) dei c.d. liberisti.
Ora, tale tentativo è ancor più difficile dopo la crisi finanziaria del 2008, ma non per questo meno meritorio.
Perchè una cosa è certa, per i liberisti onesti: che nessun degno liberista è convinto che se si lascia fare al “mercato” si può tirare un calcio alla scacchiera e confidare sul fatto che essa cadrà a terrà con tutti i pezzi perfettamente in ordine. Insomma, i liberisti della nostra specie non è vero che sono contrari alle regole, anzi. Il mercato, come tale, altro non è che un insieme di regole. Il contratto, strumento principe del mercato, è una regola pattizia.
I liberisti dissentono dai dirigisti (così comprendendo le diverse epifanie degli anti-liberisti) perchè credono che le regole non debbano stabilire obiettivi, non debbano essere una sorta di pedagogico esercizio volto a perseguire risultati collettivi e comuni, ben rappresentati da perifrasi come “utilità sociale” e simili.
Questo perchè i liberisti onesti fondano il proprio orientamento – che non è affatto dogmatico – su due presupposti che poco o punto hanno a che fare con l’economia, ma la precedono. Innanzitutto, i liberisti sono tendenzialmente degli “imperfettisti”: non credono che la natura umana tenda naturalmente verso il bene o il giusto, non credono, ancor prima, che la ragione umana consenta la deduzione da principi dati di regole ferree e perciò immutabili. Procedono per tentativi ed errori, e difendono la libertà di errare come principale strumento di conoscenza.
Secondariamente, poi, alla base del liberismo riposa, checché ne dicano i suoi avversari, un principio morale. E questo non è un caso, se solo si pensa al fatto che il padre dei liberisti onesti, ovvero Adam Smith, prima di scrivere la Ricchezza delle Nazioni aveva scritto la Teoria dei Sentimenti Morali, e che senza legger la seconda è impossibile comprendere il contenuto, prima che economico, politico della Ricchezza delle Nazioni.
Ed è impossibile comprendere la straordinaria opera di Luigi Einaudi se non se ne comprende l’impegno eminentemente morale del suo liberismo.
Come detto, oggi è molto difficile trovare il coraggio di professare il proprio liberismo. Anche perchè troppi, a torto, credono che la crisi finanziaria sia frutto del mainstream liberista (sul punto basti dire, qui, che non vi è liberista onesto che abbia mai negato l’opportunità della regolamentazione del settore finanziario). Ma crediamo che sia doveroso farlo ripartendo dal contenuto etico di tale indirizzo.
Fare assegnamento sullo spirito di iniziativa presuppone che si comprenda, per citare proprio Einaudi, come “il nemico è in noi. E’ l’ignavia, il desiderio di guadagnare gittando il rischio sulle spalle altrui, di trivellare il bilancio pubblico e di arraffare ingiustamente, se bene legalmente, il reddito dei connazionali”. E che si superi il retaggio della melassa pauperistica, imparando ad apprezzare come “il lavoro è uno sforzo, che la vittoria economica non si ottiene con spedienti legislativi, con trappole governative, con cabale da padreterno, ma colla perseveranza, coll’iniziativa indomita, col coraggio” (sempre Einaudi).
Insomma, quando si invoca, dalle nostre sparute fila, una limitazione delle intromissioni amministrative, che poi voglion dire i controlli degli apparati pubblici che poi sono apparati politici, non lo si fa per render omaggio all’avidità, ma per limitare il rischio che i continui contatti con l’apparato pubblico concimino il terreno già fertile della corruzione, del premio in favore del più ammanicato a danno del più preparato senza protettori.
I primi a sparare ad alzo zero contro i liberisti sono i topi nel formaggio, che alimentano i propri privilegi (che sono cosa ben diversa dai profitti) grazie alle aderenze, alle comuni frequentazioni, alle parentele, alle affiliazioni, ai sodalizi, alle pratiche lottizzatorie, insomma a quel reticolato di relazioni che tengono lontano il merito e premiano l’adulazione, la cieca fedeltà.
Ed è per questo che la nostra cultura dominante, alimentata da quella strana emulsione che ha come ingredienti il pauperismo cattolico, un marxismo superficiale ed i residui della struttura corporativista del ventennio fascista, è avversa al profitto, al guadagno. Mentre il profitto, in una società aperta, “è il prezzo che si deve pagare perché il pensiero possa liberamente avanzare alla conquista della verità, perché gli innovatori mettano alla prova le loro scoperte, perché gli uomini intraprendenti possano continuamente rompere la frontiera del noto, del già sperimentato, e muovere verso l’ignoto ancora aperto all’avanzamento materiale e morale dell’umanità” (Einaudi).
Insomma, ciò che noi auspichiamo è una società aperta, competitiva, dove il merito venga premiato, senza che si dimentichino gli ultimi o coloro che sono privi di talento. Una società di individui responsabili perchè liberi. Ciò che non vogliamo è una società imbragata, dove ciascuno declassa da individuo a mezza manica di una qualche burocrazia, sempre all’erta per annusare l’imminente cambio di vento politico. La società dei talenti liberi di esprimersi contro quella dei bolli tondi, delle certificazioni pubbliche, delle ginuflessioni al potente di turno, pena la morte d’inedia. Per scrostare la mentalità italiana da certi residui la cura Monti, con tutti i difetti che se ne possono scorgere, è una terapia necessaria.