Il dibattito sul Financial Times sulla crisi del capitalismo colpisce più che per il contesto, che a discuterne sia il giornale della City, che per le idee che ne escono. Lawrence Summers crede che basti un po’ di manutenzione alla teoria economica per rimettere in moto la macchina dei mercati. L’ex leader malesiano Mahathir Mohamad dice che la finanza è servita all’Occidente in questi ultimi vent’anni a coprire e rimandare la crisi del suo sistema industriale già da tempo emigrato a est, riecheggiando alcune tesi esposte vent’anni dal grande Giovanni Arrighi nel suo «Il lungo ventesimo secolo». L’impressione è che grandi teorie non ne leggeremo ma che piuttosto il futuro sarà un patchwork di idee del passato. Quello che abbiamo davanti molto probabilmente lo avevamo dietro.
A spiegare il perché di questo vuoto era stato un anno fa, nel gennaio del 2011, lo stesso Financial Times. Quel giorno, il 24, per mano del capo dei corrispondenti esteri, Gideon Rachman il giornale si poneva la seguente domanda: «Where have all the thinkers gone?» e lo faceva analizzando la lista dei «Top 100 global thinkers» che ogni anno stila la rivista Foreign Policy. Non stiamo qua a discutere quali criteri si usino per stilare queste liste, anche se sarebbe molto interessante, ma i risultati erano davvero sorprendenti.
Al numero uno c’era Bill Gates ex aequo con il finanziere Warren Buffett. Numero due addirittura erano Dominique Strauss-Kahn, all’epoca ancora al Fondo Monetario prima di cadere in disgrazia pochi mesi dopo, e Robert Zoellick (Wto) mentre al numero tre c’era Barack Obama. Figurava poi nella top ten il ministro degli Esteri brasiliano Celso Amorim e al numero otto il generale Usa David Petraeus, l’eroe dell’Iraq ora a capo della Cia. Al decimo posto si trovava finalmente una donna, Angela Merkel, ma anche in questo caso definirla “pensatrice” non sembrava facile allora, figuriamoci oggi. Bisognava arrivare all’undicesimo posto per trovare uno che pensi più che agire nella figura dell’Iman newyorkese Feisal Abdul Rau seguito a ruota dall’economista Nouriel Roubini. Come teorici, in questa lista del gennaio 2011, gennaio erano citati Henry Kissinger (25) e Fareed Zakaria (27), come è giusto che sia su una rivista di politica internazionale.
Ma per arrivare a qualcuno che assomigli davvero a un pensatore bisognava scorrerla fino alla quarantesima posizione con il filosofo Abdolkarim Soroush a cui si ispira il movimento democratico iraniano. Se la stessa lista fosse stata compilata 150 anni prima, nel 1861, argomentava Rachman, avrebbe visto citati Charles Darwin e John Stuart Mill o Karl Marx e Charles Dickens. Per citare solo gente che viveva dalle parti di Londra perché già solo a Mosca c’erano in giro Tolstoj e Dostoevskij. L’articolo ripete il giochino su altre date prese a caso ma il risultato è sempre lo stesso, quello espresso dal titolo: «Dove sono finiti tutti i pensatori?».
Karl Marx
La lista di Foreign policy è stata poi regolarmente aggiornata includendo alcuni degli attivisti che hanno preso parte alle rivolte arabe, e forse proprio perché incalzati dal FT, questa volta l’elenco inizia con il dentista egiziano diventato scrittore Alaa Al Aswany e insieme a lui nelle prime posizioni si vede anche Gene Sharp, il teorico politico di Boston che ha tradotto la pratica della non violenza di Henry Thoreau e di Gandhi in un manuale pratico di grande successo fra i rivoltosi di mezzo mondo. Con loro ora nella lista compare anche Bernard-Henri Lévy, il mediatico nuoveau philosophe che al telefono con Sarkozy lo ha convinto che intervenire in Libia sarebbe stata cosa buona e giusta. Difficile vedere in ognuna di queste figure l’affermazione di un pensiero compiuto o innovativo o rivoluzionario. A meno di non scambiare la non-violenza per un’idea nuova o BHL, così lo chiamano i francesi, per il nuovo Foucault (che peraltro sull’Iran si sbagliò di grosso). I suoi nemici citano gaffe memorabili come quando in un libro BHL ha stroncato semplicemente Kant usando però come supporto un filosofo che si è rivelato inesistente.
Ma anche a voler essere magnanimi il punto è che basta pensare a chi c’era invece in giro solo quarant’anni fa: nel 1971 dalle parti di Parigi c’erano appunto Michel Foucault, Claude Levi-Strauss, Jacques Derrida, Jean Paul Sartre, Gilles Deleuze. Per dire solo i primi nomi che vengono in mente di una lista che potrebbe andare avanti per diverse righe. Insomma, la crisi del debito esplode in questo quadro, con una scarsità di idee pari solo a quella di liquidità. Bernard-Henri Lévy
Le ragioni dello smarrimento del pensiero possono essere lette con diverse chiavi. Cercheremo di sintetizzarle in maniera semplice ma spero non troppo semplicistica, sperando di non abusare della pazienza del lettore. La più scontata fra le ragione è ridurre il tutto alla categoria del post-moderno, alla scomparsa delle grandi narrazioni e accontentarsi in questo modo. D’altra parte, si può argomentare, per il mondo delle idee non può oramai che essere così, data la parcellizzazione dei saperi, del loro infinito sviluppo, che consiste soprattutto in un continuo processo di specializzazione, e quindi di frammentazione. Motivo per cui è ora impossibile avere una visione completa. Se neanche il medico conosce più la medicina ma solo l’organo di cui si occupa e poco altro, come si può pensare a un pensiero che tutto racchiuda? L’ultimo matematico che conosceva tutta la matematica, questo è l’esempio classico che si fa in questi casi, era Poincaré che però è morto nel 1912. Dante invece conosceva tutto quello che era conosciuto nella sua epoca soprattutto perché era “conoscibile”, nel senso che il sapere non era così esteso come è oggi.
Oppure, come ricorda l’amico Paolo Bottazzini, si può sostenere che il pensiero sia così nascosto da non essere più visibile. Morfologia e strutture delle informazioni territoriali in geografia non coincidono infatti più: la configurazione dell’ambiente, che può essere fotografata da un satellite e rappresentata su una cartina, non è più in grado di mostrare l’anatomia dei rapporti sociali, dei processi economici, dei flussi antropologici che la modellano. Se per esempio uno volesse bombardare la sede di Google non potrebbe comunque bloccarne l’attività, i suoi server sono chissà dove.
E c’è anche una terza e ultima ipotesi. Si può ipotizzare che sia avvenuto ciò che è accaduto anche con finanza strutturata, un fenomeno che Newsweek aveva paragonato allo slum di Mumbai. Vale a dire che con il processo avvenuto con le Cdo, le Collateralized debt obbligations, è successo che un mutuo sia stato impacchettato in un’obbligazione, impacchettata a sua volta in un derivato, impacchettato anch’esso in un altro contratto e così via in un passaggio turbinoso di mani e contenitori diversi. Dov’è finito alla fine quel mutuo? Boh, nessuno lo sa più, come negli slum di Mumbai è sempre difficile capire di chi sia cosa. Vale a dire che in realtà il prodotto-pensiero esiste ma è nascosto dalla velocità della sua propagazione.
Quello che emerge da queste tre ipotesi è allora che il pensiero non riesce più a prodursi come tale perché è sparito il suo sottostante. L’oggetto è andato frantumandosi (nel caso delle specializzazioni), separandosi (nel caso della frattura fra fisiologia e anatomia geografica), nascondendosi (nel caso dello slum di Mumbai). Poi in effetti si alza la testa e si vede un’Europa che arranca stancamente, gli Stati Uniti che lottano per rallentare il loro declino e l’Asia che non riesce a tradurre la sua forza economica in un soft power che la renda un modello, se non auspicabile, almeno condivisibile per gli altri cittadini del mondo. In questo scenario, mentre capitalismo e democrazia sembrano prendere vie sempre più separate, sono arrivate le rivolte finite sulla copertina di Time.
Lasciamo tempo a questi e ad altri movimenti di prendere coraggio e vedere se sapranno aggirare questi ostacoli, sapendo dove trovare e come produrre idee di cui potere discutere. Abbiamo ben presente che sarà sempre più difficile aspettarci grandi teorizzazioni e il primo passo è quindi avere aspettative corrette. Quello che hanno prodotto finora questi movimenti lo abbiamo analizzato in queste pagine con il determinante apporto di uno storico dell’economia del calibro di Giulio Sapelli. Ora poi vogliamo aprire un blog a sé per dibattere con voi di questo, di modelli economici sostenibili, di forme di democrazia auspicabili, di quelle benedette idee di cui ora abbiamo così tanta fame.
Quando ho iniziato a lavorare a 19 anni ebbi la fortuna che fra le prime persone con cui dovevo interagire ci fosse una psicanalista junghiana che mi diceva: «non accetto e non accetterò mai di perdere perché non ho idee, posso perdere perché non sono buone, perché non sono adatte, ma non perché non ne abbia, questo non potrei mai accettarlo». Ora più che mai la sfida sarà proprio questa.
Twitter: @jacopobarigazzi