Trasparenza e Merito. L'università che vogliamo“Il conto delle Mani Sporche? Lo deve pagare il Socialista per tutti!”

Con le mani nelle tasche, per il freddo pungente, percorrevo, nella luce del sole che abbagliava, il largo corso ad est dell'antica cerchia dei navigli, accompagnato, quasi sospinto da una folla ag...

Con le mani nelle tasche, per il freddo pungente, percorrevo, nella luce del sole che abbagliava, il largo corso ad est dell’antica cerchia dei navigli, accompagnato, quasi sospinto da una folla agitata di uomini e donne. Alcuni avevano delle borse sotto braccio, altri dei faldoni, altri ancora indossavano solo sciarpe e cappelli. Tutti corrucciati nei volti, ma eccitati. Mi trovai, in un attimo, davanti al Tribunale, una costruzione fascista, con al centro le tre aperture squadrate in cemento che sovrastavano tutto. Lessi, quasi meccanicamente, l’epigrafe giustinianea davanti all’ingresso, ma subito passai oltre. Percorsi rapidamente le scale senza fermarmi. Dopo qualche passo ancora, mi trovai al centro del cortile d’onore, e fui subito avvolto da un tumulto di voci, ma anche di grida, di cori, di richiami, di contese, perfino qualche pianto.

Lì era piantata una enorme e significativa statua scolpita in porfido rosso, la “Giustizia” in persona. Vidi, con la coda dell’occhio, che i giovani procuratori d’assalto scansarono la calca con l’aiuto di alcuni uscieri, tirati ancora per le falde da mani imploranti. Gli avvocati, intanto, brandivano fogli di verbali, carte bollate, in una infinita discussione che giunse fino all’aula. Testimoni e pubblico si affannavano alla ricerca dell’aula. Così feci anch’io.
Nella piccola aula della seconda sezione penale si era accalcata fino all’inverosimile la folla dei curiosi: c’era di tutto giornalisti, avvocati, politici, imprenditori, parenti degli imputati, ragazzini. Quel giorno iniziava il primo processo dell’inchiesta di Mani pulite, nota a tutti come Tangentopoli.

Mani pulite, richiamava alla mente l’espressione usata molti anni prima da Giorgio Amendola, in un’intervista rilasciata al “Mondo”, e un celebre discorso del presidente Pertini. L’unico imputato, l’uomo di fiducia di un noto imprenditore di livello nazionale, era accusato di aver organizzato e distribuito le “mazzette” di Eni e Montedison.
 Il Finanziere, l’unico sempre assente al processo, ma poco importava. La luce dei riflettori era tutta puntata sui testimoni, quei celebri protagonisti della politica italiana, da sempre ai vertici della nomenklatura, imputati di reato connesso: il Liberale, il Repubblicano, il Democristiano, ma soprattutto lui, il Socialista.

Mentre tutti erano in attesa, come da copione, davanti al Palazzo si fermò l’auto blu. Ne uscì il Socialista, e appena messo piede a terra, una folla di fedeli lo circondò. Alcuni lo seguirono mentre entrava, altri gli si buttarono in ginocchio, altri ancora si chinarono a baciargli le mani. Uno disse “Eccellenza”, un altro “Onorevole”, un altro ancora “Presidente”, ed ognuno gli si raccomandava per qualcosa che voleva ottenere. Il Socialista lasciava che gli si baciassero le mani, che lo toccassero piangendo come una specie di reliqua, mentre avanzava, con passo sicuro e baldanzoso, tutto sorrisi e saluti, tra gli applausi dei fedelissimi. Fece così, a piccoli passi, il suo ingresso in Tribunale.
Il Magistrato aveva il vento in poppa ormai da diversi mesi, almeno dal 17 febbraio 1992. Quel giorno, aveva preso “con le mani nella marmellata”, cioè colto in fragrante mentre intascava una tangente, l’Ingegnere, il presidente del Pio Albergo Trivulzio. Ne era seguita tutta una serie avvisi di garanzia che avevano messo in ginocchio l’intero mondo imprenditoriale e politico milanese e poi anche nazionale.

Proprio il Socialista, che quel giorno si trovava a dover rispondere in aula all’intero paese, appena qualche tempo prima, interrogato in merito da un giornalista del Tg3 aveva negato qualsiasi responsabilità, ed aveva definito l’Ingegnere un “mariuolo isolato”. Ma i tempi parevano esser cambiati, le tv e i giornali avevano iniziato a dare quotidianamente la cronaca di quella incredibile inchiesta, i politici avevano capito che non sarebbe stata la solita farsa messa a tacere di volta in volta com’era accaduto in passato, l’opinione pubblica, scossa dagli avvenimenti, si era mobilitata con forza.
Il Magistrato, fare rude e sorriso sornione, incalzò con le sue domande, fitte, insistenti, quasi lapalissiane, il Socialista, che sedeva con le gambe accavallate, calmo e pacifico come un Papa, a spiegare le malefatte del sistema.
“Io sono stato sempre al corrente della natura illegale dei finanziamenti ai partiti e al mio partito, l’ho cominciato a capire quando portavo i pantaloni alla zuava” – disse.

“I partiti erano tenuti a portare i bilanci in parlamento, i bilanci erano sistematicamente falsi, e tutti lo sapevano” – continuò a ruota libera il Socialista, dimostrando per lo meno un coraggio e una faccia tosta da pochi.
La telecamera, che fino a quel momento aveva immortalato tutto, dalla protervia dell’Avvocato difensore alla supponenza del Repubblicano, dall’indifferenza del Liberale fino alla bava alla bocca del Democristiano, si era spostata in una inquadratura dei volti presenti nell’aula, attoniti, sbigottiti, annichiliti. Un mormorio di stupefazione e di scandalo si levò subito nella sala. L’aula era minuscola, e ai lati si pigiavano contro i muri, si pigiavano gli uni agli altri, volti noti e meno noti, tutti vollero guardare in faccia il grande accusatore e il grande corruttore.
“Che schifo!” – disse uno di loro.
“E’ un martire” – fece subito un altro.
“Deve pagare per tutti” – conclusero gli italiani all’unisono.

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