Negli anni ’90 sembrava che la Germania avesse scampato le grandi inchieste sulla corruzione che in quel decennio tagliarono le gambe alla classe dirigente italiana ma anche, seppur in minor misura, a quella spagnola e inglese. A Londra ad esempio, sotto i colpi delle inchieste del Guardian, i conservatori finirono sotto accusa per una serie di scandali che portarono alla caduta di Jonathan Aitken, ex membro del governo, per aver detto il falso su una storia di mazzette e dopo aver minacciato di sfoderare «la spada della verità» contro il «giornalismo malato». Immediatamente si notò la prima differenza: ancora una volta un politico anglosassone cadeva sotto i colpi della stampa e non della magistratura, in un sistema dove sono i giornali a scoprire le magagne, con i giudici che li seguono, e non viceversa.
Ma le “stecche” non tardarono ad apparire anche in Germania. Nel 1999 i fondi neri della Cdu travolsero Helmut Kohl, l’uomo della riunificazione tedesca (da cui partirono tanti dei guai che stiamo attraversando ora), il cancelliere che per 16 anni aveva governato la Germania (più di Bismark), il politico che da 25 anni era il presidente del suo partito, anche se era famoso più per la sua memoria da elefante che per la sua intelligenza. Kohl aveva già perso il potere l’anno prima e ammise che il suo partito violò la severa legge sui finanziamenti ai partiti ricevendo in maniera illecita fra 1,5 e 2 milioni di marchi (circa un milione di dollari dell’epoca). D’altra parte, come diceva Lord Acton, «il potere tende a corrompere e il potere assoluto corrompe in maniera assoluta».
Oggi le dimissioni del presidente Christian Wulff, nel giorno dell’anniversario di Mani pulite, fanno pensare ad un generico ed autoassolutorio «Così fan tutti» con cui poterci dare delle pacche sulle spalle, soddisfatti che in fondo, la nostra italica ed endemica corruzione, non abbia nulla di specifico. Ma sarebbe errato. Certo, le accuse a Wulff sono pesanti: i suoi rapporti incestuosi con il produttore cinematografico David Groenewold che gli paga una vacanza, dopo che un anno prima il governo della Bassa Sassonia da lui presieduto aveva concesso fondi per un millione di euro al gruppo di Groenewold, puzza lontano un chilometro. Come pure il prestito da 500mila euro a tasso agevolato concesso dall’amico e imprenditore Egon Geerkens. E le sue minaccie ai colleghi della Bild, perché non rivelassero questa storia, sono state la classica goccia che è diventata un mare dopo che la procura di Hannover ha chiesto per lui la revoca dell’immunità che lo avrebbe potuto portare dritto all’impeachment. Forse la vicenda avrebbe avuto un esito simile anche da noi, anche se al posto di Wulff ci fossero stati Napolitano o Ciampi. E quindi per capire se ci sia una differenza, e dove sia, bisogna fare qualche altro piccolo passo indietro.
La sua uscita di scena arriva infatti dopo che il 31 maggio 2010 si era dimesso il precedente presidente Horst Köhler, ex direttore generale del Fondo Monetario. La sua colpa? Aver detto che le truppe tedesche impiegate all’estero difendono anche interessi commerciali. E, come spesso capita in politica, è quando si dice la verità che si finisce nei guai. Nel marzo dell’anno scorso poi Karl-Theodor zu Guttenberg, l’astro nascente della Cdu e all’epoca ministro della difesa del governo Merkel, si è invece dimesso dopo un’accusa di plagio per alcuni passaggi della sua tesi di dottorato. Lo stesso Kohl non urlò al complotto, si prese le sue colpe, e si inabissò.
Insomma esattamente come capita con le persone, non le si apprezza o le si critica per quanto gli succede (tutti facciamo errori) ma per come reagiscono. Che, tradotto in politica, vuole dire che quello che abbiamo in comune con gli altri Paesi è semmai, fino a un certo punto, “l’azione”, le cose che succedono, le tangenti, le gaffe, le bassezze moral-intellettuali. Anche gli altri mangiano, anche se magari sapendo meglio stare a tavola di noi. Quello che è invece diverso è “la reazione”: quando un politico viene accusato molla la poltrona viene costretto a fare un passo indietro, si difende nelle aule di giustizia o comunque mette la salvaguardia dell’istituzione davanti ai propri interessi. Consapevoli che, prima della giustizia, vengono l’etica e l’opportunità politica di certi comportamenti. E che l’alternativa, il ridurre il problema politico a quello legale del terzo grado di giudizio, equivale in realtà a dare un potere immenso alla magistratura, che finisce così con lo svolgere compiti che non sono, non sarebbero, suoi.