Oggi è l’8 marzo. E che cosa festeggiate? Trentuno donne morte ammazzate in sessantassette giorni. Questa è un’emergenza. Che sicuramente dice di una certa forma di maschilismo contemporaneo alle prese con un impossibile, quello di avere una donna che sia tutto, che faccia tutto: la madre, la moglie, l’amante (e “di qualità”), la donna in carriera, la casalinga, la regina, la serva, l’oggetto prezioso da presentare in società, il materasso delle botte. Ma questa è una lettura piuttosto superficiale, che non pone la questione nei termini giusti e, dunque, resta infeconda. Continuare a trattare la violenza sulla donna solo sul versante della condanna dell’uomo-carnefice non porta da nessuna parte. In fondo la donna quell’uomo devastante se lo sceglie, e se lo tiene. E perché?
Il punto di partenza è interrogarsi sulle peculiarità di legami cui entrambi i partner partecipano a tutti gli effetti come soggetti, l’uno con la violenza, l’altra con la sottomissione. Come dire, ognuno fa il suo, ed è solo prendendo atto di questo che una donna si può salvare. Dire no è possibile. Ma il problema è la perversione di cui queste relazioni sono intrise, e in cui l’amore si fonde con il dolore. L’erotizzazione della sofferenza, l’inebriante circolo vizioso in cui episodi di violenza si alternano a momenti di assoluto idillio sentimentale e sessuale, quando i due – come si dice – “fanno pace”. L’uomo torna seduttivo come un tempo, la copre di regali, le dice che lei è tutto per lui, che lei è speciale. La donna gode di questo attimo (che può durare giorni, mesi, come pochi minuti) in cui la sua domanda d’amore senza limite ottiene la risposta desiderata. E così giura che gli darà tutto, sarà proprio come lui vuole, non lo farà arrabbiare mai più. Lei è l’unica che lo capisce, e con il suo sacrificio lo farà cambiare.
La ricerca di questo istante in cui l’uno si fonde con l’altra, in cui i confini non esistono più, può diventare l’ossessione di una vita, per lui come per lei. Eppure si tratta di un’utopia, cioè di un non-luogo, perché l’altro resta sempre e comunque altro; diverso, sconosciuto, a volte imprevedibile, incontrollabile. Cosa inaccettabile all’interno di queste coppie, in cui l’altro diventa una stampella (cioè un oggetto) a sostegno del proprio narcisismo. È il caso, ad esempio, della donna che deve sempre confermare il partner, non far nemmeno trapelare nel proprio sguardo un segno di qualcosa in cui lui è mancante; per non scatenarne la furia.
C’è un film, “Ti do i miei occhi”. Ne parla Concita de Gregorio nel suo libro Malamore. Esercizi di resistenza al dolore (2008), riportando le battute di un dialogo che riprendo qui, direttamente dal testo. Lui è un marito violento, lei una donna che se ne è andata, ma poi è tornata con lui.
“Lui: «A cosa stai pensando?». Lei: a niente. «Che sono una merda in confronto a mio fratello? ». No, a niente. «O mi dici a cosa stai pensando o non ci muoviamo di qui. Pensi che guadagno poco? Che sono un buono a nulla? Dimmelo». Smettila, Antonio. «Ecco, vedi, pensi che guadagno poco». Il bambino si sveglia, piange. Il padre esce dalla macchina e comincia a prendere l’auto a calci. […] Il giorno dopo Antonio torna a casa la sera con dei regali […]” (De Gregorio, 2008, pp. 68-69).
Se l’alterità dell’altro è negata, lo si riduce ad oggetto. E un oggetto lo si usa, se ne gode, come si gode di una proprietà. La donna può smarcarsi da questa posizione di oggetto. Ma certo non si tratta di una scelta facile e senza implicazioni, perché lui non la lascerà andare facilmente (anzi, probabilmente la perseguiterà). In questo processo delicatissimo (spesso non esente da ricadute), che è a tutti gli effetti un cambiamento della propria posizione soggettiva, la donna ha bisogno di essere sostenuta e tutelata dalla legge e dai servizi sociali. Anche perché spesso di relazioni significative non ne ha più; per poter essere una cosa sola lei e il suo partner si sono alienati dal resto del mondo. Guardate anche questo film – si intitola “Primo amore” – su una storia estrema e purtroppo vera, quella di Marco Mariolini, il “cacciatore di anoressiche”.
Concludo su questo. Quando c’è una violenza, o un abuso, occorre mettersi sempre dalla parte della legge. La legge dello Stato dovrebbe essere al servizio della legge simbolica, che protegge e valorizza la differenza: di genere (ma a pari diritti ed opportunità); e di generazione (perché il rispetto del confine generazionale impedisce l’abuso dei figli da parte dei genitori). Ma un programma di intervento veramente efficace integra la certezza della pena e della protezione della vittima con un’attenzione di tipo clinico su situazioni di perversione relazionale che hanno un’origine ben più antica, e che a tutti gli effetti sono epifenomeni di una grande sofferenza. Della donna come dell’uomo. Se non si fa qualcosa sul versante della cura, quella donna magari scamperà al sua carnefice, ma forse se ne troverà un altro; e quell’uomo, molto probabilmente, riverserà la propria rabbia altrove. Il rischio, in ogni caso, è l’eterno ritorno dell’uguale.