Cresce un dubbio: che il vero nemico di Mario Monti nel suo sforzo di attirare investimenti stranieri non sia la Fiom ma Sergio Marchionne. La sua incapacità di vendere auto scaricata sul sindacato (vedi articolo) e la rappresentazione dell’Italia che ne deriva per interessi di bottega del mondo Fiat, hanno il duplice effetto di martellare negli stranieri l’immagine di un Paese dove sia impossibile investire e, soprattutto, di farlo per la ragione sbagliata. Intendiamoci, non che l’Italia sia una Paese business friendly e molto va fatto per renderlo tale, ma l’attenzione spasmodica data all’aspetto sindacale rischia di fare confondere la realtà con la percezione.
Martedì sera colpiva molto sentire Mario Monti in conferenza stampa usare come intercalare per due volte, quando parlava di Articolo 18, la definizione di “problema reale o percepito”. Sembrava non ne fosse convinto manco lui. Ma mettiamo che sia proprio così, che l’articolo 18 sia quello che da Wall Street a Pechino tutti si aspettavano che sparisse dal nostro ordinamento per tornare copiosi a investire da noi. Questo è proprio quello che si gioca Monti nel suo viaggio in Asia dove da lunedì andrà a fare il piazzista delle riforme. Se Monti e Marchionne («Mi piace tutto di Monti» disse il numero uno di Fiat) hanno avuto ragione nel ridurre il problema della scarsità di investimenti stranieri in Italia ai soli termini sindacali, allora d’ora in poi dovremo aspettarci flussi di soldi stranieri in Italia in forte crescita. E spero proprio che abbiano ragione. Perché altrimenti vorrebbe dire che il governo ha speso il proprio capitale di credibilità, e il poco tempo a sua disposizione, sul cavallo di battaglia sbagliato. Perché altrimenti gli italiani si troveranno cornuti e mazziati, sbatutti sul marciapede senza vedere un briciolo di crescita economica all’orizzonte che gli permetta di trovare un altro lavoro.
E il dubbio sale col salire dell’intensità del dibattito sull’articolo 18. Il principio a cui ci si è ispirati (equilibrare la flessibilità in uscita per smetterla di farla pagare solo a chi è in entrata) è corretto ma la legge, per essere accettabile, necessita di modifiche pesanti, a partire da quella sugli statali.
E il dubbio sale a vedere che di tagli alla spesa pubblica, per non parlare di quelli alle tasse, non se ne vede manco l’ombra. Nell’impostazione di Monti (e di Marchionne) l’investitore straniero è ossessionato da Landini e non è interessato a quanto paghi di tasse la sua impresa se viene ad investire da noi, né da quanto tempo occorra ad un impresa a vedere rispettato un contratto coi tempi biblici della nostra giustizia civile, né dal potere essere sicuri di non trovarsi la mafia in casa quando si chiude un affare, né dalla necessità di avere in loco personale specializzato, con la giusta formazione professionale. No. Nella loro visione queste cose importano poco, o comunque, importano meno della Fiom.
E il dubbio sale quando Marchionne lamenta quello non funziona in Italia facendo un danno non tanto perché lava i panni in pubblico, per carità, ma perché fornisce una rappresentazione dei problemi del Paese che è soprattutto leggibile in chiave interna alla sua azienda più che alle necessità del Paese (l’eguaglianza Fiat-Italia ha già prodotto danni sufficienti). Perché non me lo ricordo lamentare i tempi biblici della giustizia civile? Perché non me lo ricordo lamentare che in Italia Mafia Spa ha lo stesso giro d’affari dell’Eni ed è quindi la prima o la seconda azienda del Paese? Perché non me lo ricordo parlare di costi dell’energia? Perché, anche quando accenna a questi temi, poi gli parte l’embolo per la Fiom. Il Marchionne versione Crozza rischia spesso di essere quello più autentico.
Mi sbaglierò e avranno ragione loro, non c’è dubbio. Eppure ho lavorato per quasi dieci anni per testate straniere e ogni volta le lamentele che sentivo sul nostro Paese erano sui contratti impossibili da fare rispettare, sul costo dell’energia più alto che nel resto d’Europa, su una tassazione non competitiva e, appunto, sul ruolo della Mafia. Poi, certo, è apparso con sempre maggior forza il tema sindacale. Ancora un mese fa colleghi e amici di un network televisivo americano mi chiedevano se davvero i sindacati italiani fossero così forti e invincibili. Ma la domanda gli veniva dalla rappresentazione Marchionnesca del reale o meglio, dalla sua riduzione ad un tema solo.
Il rischio è che l’Italia paghi ancora una volta l’incapacità di Fiat di fare il suo mestiere. Intanto l’Inghilterra ha tagliato la tasse sulle società. La «corporation tax» dal 26% scende al 24% nel prossimo mese, poi al 23% nel 2013 e al 22% nel 2014. Sarà la più bassa nel G7 e la quarta più bassa nel G20 (dietro a Turchia e Arabia Saudita) mentre l’Italia è tredicesima. Per fare una cosa simile anche da noi, occorrerebbe prima un sostanzioso taglio di spesa pubblica. Ma questo vorrebbe dire indispettire davvero i partiti che, in un momento di crisi della delega e della rappresentanza, si vedrebbero tagliata sotto i piedi l’erba per le loro clientele. Allora meglio concentrarsi sull’articolo 18, male originario di tutto il sistema. D’altra parte è più facile prendersela con i sindacati che coi partiti. È più facile tagliare le pensioni che separare Eni da Snam. Come è più facile per Marchionne dire che è colpa di Landini e non della famiglia Agnelli che non gli dà una lira da investire. Pensavo che i due, Monti e Marchionne, potessero essere dei coraggiosi rifomatori. Ora temo che abbiano solo messo assieme le loro debolezze.
Twitter: @jacopobarigazzi