Manca un mese a quell’11 aprile che segnerà i venticinque anni che ci separano dal giorno in cui Primo Levi prese bruscamente congedo dalla sua vita e da noi.
E’ probabile che molti lo ricorderanno con uno stile commemorativo, impettito, paludato. Alla fine inutile. Solo celebrativo.
Il Centro Primo Levi di Genova ha indetto per il 15 aprile prossimo un convegno che si svolgerà a Palazzo Ducale a Genova dal titolo “Voce della coscienza, voce della ragione” in occasione del venticinquesimo anniversario della morte di Primo Levi. Mi sembra un titolo appropriato che risponde al vuoto del nostro tempo.
Di Primo Levi sono rimaste le parole, i romanzi. PIù indietro è rimasto il senso di una scrittura che col tempo acquista uno spessore ”civile”. Un aspetto che non tutti allora seppero cogliere, proprio perché il volume era basso, la voce ferma, ma dimessa. In questi venticinque anni è mancata spesso una voce intellettuale che muovendo dal proprio particolare sapesse sollecitare una riflessione universale.
Non è detto che sia solo un problema di profondità intellettuali o di latitanza dell’intellettuale civile. Talora il problema è più radicale.
Come l’eccesso di luce, costringendo a socchiudere gli occhi per poter sopportare e sostenere la vista, rende impossibile cogliere le sfumature di tono e dunque di individuare la gamma intera degli oggetti e delle figure che ci stanno davanti, capita così anche nella condizione di ridondanza di rumore.
Primo Levi aveva la particolarità di non alzare la voce, di parlare con lentezza e con precisione. Sono alcune delle qualità che il nostro tempo non è più in grado, non solo di apprezzare, ma soprattutto di sopportare. Perché fondate sulla consapevolezza della propria non onnipotenza.
Se c’è un vuoto che non siamo riusciti in tutti questi anni a riempire davvero, probabilmente è proprio questo. Ci è mancata in questi anni non solo la voce, ma la costanza di saper scavare intorno a un nucleo di questioni e a un tema e da lì far emergere uno sguardo complessivo, un senso del presente. Un lavoro paziente che si fa e si consegue senza urlare, nella penombra, laddove i contorni della realtà divengono più facilmente individuabili.
Sono i temi della “zona grigia”, del rapporto tra perdono, analisi e comprensione, del saper misurare le parole, della vasta gamma di caratteri, emozioni, sentimenti e riflessioni nelle condizioni estreme. Tutti temi o percorsi di analisi su cui Levi ha cercato di scavare con pazienza, sapendo che non tutto si può dire non per reticenza ma perché consapevoli dell’inadeguatezza del proprio vocabolario. Senza dimenticare, peraltro,altri temi che segnano i punti critici, della nostra vita quotidiana: la funzione pubblica dello scrittore civile; la qualità del lavoro a fronte del suo degrado; cosa voglia dire memoria; quale sia il rapporto e come coabitino sapere scientifico e sapere umanistico.
A 25 anni da una morte che molti non capirono, che taluni perfino rifiutarono, bisognerebbe essere in grado valorizzare ed esaltare quei tratti di un pensiero che erano anche una condizione per pensare e a cui spesso nessuno bada: la ricchezza di suggestioni, la curiosità, l’ironia, il silenzio prima di rispondere, la sobrietà (forse il tratto che ci è più estraneo, immersi come siamo in un‘epoca dove l’urlo o l’atto narcisistico sono dominanti). In una parola la compostezza. Tutti aspetti che sono inattuali. E che ci mancano.