L’ipocrisia mi repelle, in ogni campo. Ancor più, poi, quando lambisce il terreno infido e scivoloso del ‘politicamente corretto’.
Da qualche anno, infatti, siamo sempre più vittime di una pericolosa forma di iconoclastia linguistica che si nutre di eufemismi per sostituire alcune locuzioni o, peggio, di colpevoli omissioni.
Chi, quando e perché ha deciso di cambiare posto alle parole, sfrattandone alcune per far posto ad altre?
Le parole servono tutte, ognuna a proprio modo.
Naturalmente, non mi riferisco ad alcune formule linguistiche offensive che è sacrosanto siano state debellate; parlo invece delle parole di uso comune, quelle che fanno parte del nostro vocabolario da sempre.
Negli Stati Uniti, patria del ‘politically correct’ , il Dipartimento dell’Educazione di New York ha proposto di abrogare dai test scolastici cinquanta parole considerate diseducative perché potrebbero urtare la sensibilità degli studenti.
Ammesso e non concesso che ogni forma di censura linguistica è di questi tempi improponibile, le parole ‘incriminate’ sono tutte di uso comune: povertà, divorzio, compleanno, extraterrestre, dinosauro, Halloween. Ma anche: cancro, dancing, junking food, case con piscina, vacanze, ricchezza, religione,senzatetto,disoccupato, case con piscina, armi.
Ognuna di queste, a detta di questi moderni censori, potrebbe rappresentare un pericolo. Forse i ragazzi che hanno i genitori separati potrebbero essere traumatizzati dalla parola ‘divorzio’? O la parola ‘compleanno’ rappresenterebbe una minaccia per seguaci di Geova, che non lo festeggiano?
Questa forma di ipocrisia linguistica non può portare a nulla di buono e anche se è vero, com’è vero, che le parole sono pietre non bisogna mai temerle.
Dal canto mio, rimpiango i tempi in cui il ‘collaboratore scolastico’ si chiamava ancora ‘bidello’ e l’’operatore ecologico’, netturbino. Forse le parole ‘bidello’ e ‘netturbino’ sono meno dignitose delle espressioni che le hanno rimpiazzate? Io credo proprio di no e, vivendo di parole, confido nella loro forza intrinseca.
Perché le parole tornano sempre.
E tornano vestite diversamente da come le avevamo congedate.
Tornano supplici, o proterve. Tornano per cingerci d’assedio, o per chiederci di assediarle. Tornano per scarnificarci, o per farsi scarnificare.
Le parole prima o poi tornano, splendenti, dall’oblio dove le avevamo confinate.
E quel giorno, anche il Dipartimento dell’Educazione di New York non potrà che arrendersi alla loro meravigliosa evidenza.
Parola mia.