ParsifalE’ un peccato di “lesa maestà” scoprire che la Fornero è ferma al ‘900?

C'è qualcosa che non convince della riforma del mercato del lavoro messa a punto dal governo dopo la lunga consultazione con le parti sociali. O almeno dell'enfasi con la quale la si è presentata n...

C’è qualcosa che non convince della riforma del mercato del lavoro messa a punto dal governo dopo la lunga consultazione con le parti sociali. O almeno dell’enfasi con la quale la si è presentata nell’informazione. Viene descritta infatti come una svolta epocale e la premessa indispensabile per far sorgere il sol dell’avvenire sull’economia italiana.

Certo, c’è la questione aperta del famoso articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori. Sul quale, come purtroppo succede da diversi lustri, si scaldano il dibattito pubblico e la polemica politica, per motivi strumentali mescolati a quelli nobili. E sulla singola vicenda del 18 si trasforma il dissenso in “guerra di religione”, con il risultato – non si sa quanto involontario da entrambe le parti – di occultare sullo sfondo il complesso impianto del provvedimento riformatore.

Anche perchè, pur animata dalle migliori intenzioni di equità e di giustizia, questa riforma rischia nel concreto di rendere più agevole in casi particolari la flessibilità in uscita, ma di rendere complessivamente più rigida l’intera flessibilità in entrata, scoraggiando di fatto anzichè favorire l’offerta di impiego. E la filosofia di fondo sembra proprio risentire di quella logica dirigista e statalista, tipica del milieu sabaudo, che proviene culturalmente ancora della dimensione delle classi e considera le relazioni industriali solo come rapporto tra la grande impresa e l’universo anonimo di migliaia di maestranze.

Mentre proprio la grande impresa ha diminuito (secondo una tendenza in atto da più di un decennio e pure in tempi non di crisi) l’offerta di posti di lavoro: infatti l’occupazione, pur instabile e spesso precaria, si è mossa quasi esclusivamente nelle piccole e piccolissime imprese e nei nuovi lavori del terziario informatico. Non piacerà agli intellettuali e ai professori della sinistra torinese, ma il tessuto produttivo del Paese oggi in prevalenza è questo e prescinderne può risultare controproducente.

E forse non basta porre riparo (cosa sacrosanta) alle più palesi ingiustizie e tentare una tutela universalistica quanto ad ammortizzatori sociali. Il meccanismo di ingresso al lavoro rischia di essere nella pratica più stentato e meno produttivo per i giovani, anche perchè non affronta le due ragioni strutturali della crisi italiana in confronto al resto d’Europa. Escludere in partenza l’arcipelago del pubblico impiego vuol dire evitare di mettere le mani nell’ambito principe degli sprechi, delle sinecure e della scarsa produttività. Inoltre aumentare(con nobili intenzioni) il cuneo fiscal-contributivo significa aggravare l’anomalìa italiana: quella cioè di essere il Paese dove le aziende spendono di più e il dipendente riceve di meno. Con tanti saluti alla chimera della crescita.

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