Nel processo penale, non sempre la verità giudiziale, quella accertata dagli atti e dai fatti del processo, e verità sostanziale, quella che, a volte, solo l’imputato può conoscere, coincidono. E di questa possibilità un magistrato deve esserne sempre cosciente.
Come, d’altronde, del principio, inciso nella forma mentis e nella pratica di uomo di legge, che la verità giudiziale è quella che deve prevalere. Che piaccia o che non piaccia, che sia stata in grado di convincere o meno. Ecco, allora la funzione di controllo e di presidio della giustizia che svolge la motivazione di qualunque provvedimento giurisdizionale.
Il Procuratore Aggiunto di Palermo Antonio Ingroia
L’ordinamento non pretende che la decisione di un giudice venga scambiata per la verità assoluta né che questi ne sia depositario, ma che supportata da una ragionevole e coerente argomentazione giuridica, permetta di sostenere quanto deciso. E metta un punto alla questione.
Il rischio sottile, nel commentare le decisioni del giudice, ancor di più senza conoscerne le motivazioni, è di uscire dal terreno del commento giuridico e di piegarle e strumentalizzarle politicamente. O per fini diversi da quelli di giustizia. Era previsto e del tutto aspettato che la sentenza della Corte di Cassazione sul caso Dell’Utri avrebbe innescato aspri dibattiti e accese polemiche. Sia in caso di condanna, che, come è successo, di non condanna.
Avendo però la Corte optato per la terza via dell’annullamento con rinvio, altra e ulteriore dalla dicotomia assoluzione-condanna, la situazione, anche sul terreno giuridico, si fa molto più complessa.
E il dibattito rovente.
A motivazioni ancora sconosciute e non depositate, è difficile giudicare serenamente e obiettivamente una decisione, che a molti non è piaciuta. Sopratutto, ai procuratori che della lotta alla mafia hanno fatto una missione di vita e che si sono occupati personalmente del caso. Ragionevole l’amarezza, per la Procura di Palermo che aveva condotto il caso e che riteneva la ricostruzione dei fatti sufficiente per la condanna, ma stiamo attenti al rischio che siano gli stessi magistrati a delegittimare l’operato dei propri colleghi.
Parlare di “ demolizione della cultura della giurisdizione e della prova che erano del pool di Falcone e Borsellino” è per qualunque magistrato un’accusa grave, sopratutto se rivolta da un collega, come il procuratore aggiunto di Palermo Antonio Ingroia, ad un p.g. della Cassazione. Le parole vanno misurate e pesate, sopratutto se pesano come pietre. Anche perché il verdetto della Corte non si è fondato sul non riconoscimento di un reato, peraltro non tipizzato dalla legge, come il concorso esterno in associazione mafiosa, ma su di un più oggettivo difetto di motivazione della sentenza d’appello.
Ci vogliono, soprattutto nel processo penale, fatti dimostrati, senza che il dubbio lasci ombre. La Cassazione ha chiesto l’annullamento della condanna non perchè desiderosa di calpestare gli insegnamenti di Falcone e Borsellino, ma proprio per la qualità e le funzioni del suo ruolo. Si è comportato da giudice terzo ed imparziale, nel rispetto della Legge. Legge che non deve essere forzata, ma interpretata nel rispetto della ragionevolezza.
Ci si muove su confini incerti e rischiosi, resi ancor più difficili dalla mancata previsione ordinata e coerente di questo reato importante.
E qui la mancanza, colpevole o meno, della Politica poco interessata, per opportunismo e difficoltà oggettive, a voler incidere sulla zona grigia delle collaborazioni “eccellenti” con la criminalità mafiosa.
Da circa vent’anni la magistratura è sotto l’attacco di una sottile quanto micidiale opera di delegittimazione esterna. Non ci auguriamo che si debba difendere anche da quella interna.
I reati si perseguono con i fatti e sulla base delle norme. Le motivazioni si contestano con sobrietà, quando sono rese pubbliche. La verità giudiziale, ogni magistrato sa di doverla rispettare
E se questo a molti sta stretto e non piace, abbandonino la toga ed entrino in politica.
Il dibattito innescato, tra colleghi, sulla sentenza Dell’Utri pone alla luce in maniera lampante come si possano strumentalizzare fatti e parole e come sia rischioso e controproducente la delegittimazione interna.
Lo stesso Ingroia a Repubblica.it afferma come “il P.g. Iacoviello ha sottolineato, nella requisitoria, che chiedere l’annullamento con rinvio non significa che l’imputato sia innocente. Significa solo che la motivazione della sentenza d’appello è viziata ed è illogica. E per la verità lo sosteneva anche il pubblico ministero, che aveva fatto ricorso. Le illogicità di quella motivazione riguardavano soprattutto l’assoluzione di Dell’Utri dopo il 1992”.
E allora perchè tanta acredine?