Il 24 Marzo Diane Ackermann scrive sul New York Times (cfr. http://opinionator.blogs.nytimes.com/2012/03/24/the-brain-on-love/) che l’amore fa bene al cervello. A sostegno di questa affermazione porta evidenze empiriche di tutto rispetto. Fa riferimento ad esempio al lavoro di Daniel J. Siegel, neuropsichiatra della UCLA (University of California, Los Angeles), che da tempo indaga il rapporto tra il cervello e l’esperienza relazionale. Mi è capitato di studiare un suo testo anni fa, La mente relazionale. Neurobiologia dell’esperienza interpersonale, in cui la tesi principale è che le connessioni neuronali, con i loro pattern (o circuiti) di attivazione, siano strettamente legate alle relazioni significative della persona.
E certamente i primi anni di vita sono cruciali per il bambino, che nasce con un equipaggiamento neuronale in eccesso, poi organizzato dalla genetica e dall’esperienza soggettiva, che indirizza l’eliminazione di ciò che non serve (secondo un processo di pruning, cioè di potatura neuronale) e il consolidamento dei circuiti maggiormente utilizzati. Così, un ambiente relazionale ricco e soddisfacente non solo consente la differenziazione dell’attività del sistema nervoso, ma anche favorisce la stimolazione e la costituzione di nuove sinapsi. Al contrario, condizioni di deprivazione relazionale impoveriscono drasticamente il cervello, estremizzando il processo di morte cellulare. Il principio è economico: tutto quello che non viene usato non serve, e si butta via. Il cervello è un organo pragmatico. Del resto già René Spitz, negli anni Quaranta, si era accorto che bambini allevati in orfanotrofio si ammalavano e morivano più frequentemente degli altri, nonostante fossero ben accuditi in quanto a cibo e igiene.
Ma c’è di più. Perché il cervello è anche un organo dinamico, plastico, che anche in età adulta continua ad essere forgiato dalle esperienze relazionali. Tra queste l’amore, che quando arriva chiede la revisione di molte faccende (chiamiamole pure sinapsi …). Come dire, un cervello innamorato è nel pieno della sua attività, e gli effetti – scrive Ackermann (risultanze di ricerca alla mano) – sono positivi su tutto l’organismo; si riduce lo stress, si sente meno il dolore, si regredisce un po’, crogiolandosi al riparo dell’altro accudente.
È un’immagine divertente, quella del cervello in palestra. Che rilascia endorfine, facendo una gran fatica. Infatti c’è chi da certe cose si tiene alla larga, ritenendo che il gioco non valga la candela, in un tempo sospeso nell’infinita valutazione dei pro e dei contro.
Ma c’è qualcosa di estremamente romantico nell’articolo di Diane Ackermann. È quando scrive dell’ictus che ha danneggiato l’emisfero sinistro del cervello del marito settantaquattrenne, anch’egli scrittore, portandosi via il suo bene più prezioso: il linguaggio. Cercando di elaborare la perdita di un dialogo durato decenni, Ackermann si adopera per trovare altri modi di comunicare, attraverso gesti amorevoli, espressioni facciali, manifestazioni empatiche. Ed è così che, a poco a poco, il cervello si riprende, la parola lentamente torna.
Non importa quale sia la strada percorsa, se quella neurobiologica, psicologica, o psicoanalitica, ad esempio. Conta dove si arriva. E c’è un punto in cui le diverse discipline convergono: che la vita umana non può prescindere dalle relazioni. Per qualcuno si tratta di un grande vantaggio. Per altri è qualcosa di cui occorre farsi una ragione. Tutto, e da soli, non si può.
30 Marzo 2012