Nel mirinoLa fotografia è giornalismo ma i quotidiani italiani non se ne sono ancora accorti

  Oggi, arrivata in redazione, ho preso la mazzetta (che nel gergo dei giornali sono tutti i quotidiani che arrivano e non denari) e ho sfogliato le pagine di La Repubblica, Corriere della Sera, T...

Oggi, arrivata in redazione, ho preso la mazzetta (che nel gergo dei giornali sono tutti i quotidiani che arrivano e non denari) e ho sfogliato le pagine di La Repubblica, Corriere della Sera, The New York Times, The Guardian, International Herald Tribune, The Times. Quanta differenza tra i giornali italiani e quelli anglossassoni, soprattutto per quanto riguarda la qualità e l’uso dell’immagine!

Se ne parlava giusto l’altro ieri da Forma, il Centro Internazionale di Fotografia di Milano, che ha organizzato 3 giorni di dibattiti sullo stato della fotografia in Italia.

Il programma era particolarmente ricco e ringrazio gli amici di Forma per questa iniziativa che è già al secondo anno e di cui si sentiva la mancanza a Milano.

Quelli di Forma sono proprio sul pezzo, sia per i temi trattati che per gli ospiti e a giudicare dal pubblico si direbbe che c’è proprio voglia di parlare di fotografia.

Per chi si fosse perso gli incontri, sul sito della fondazione sono disponibili i podcast audio di tutte le discussioni.

Sabato mattina si è parlato della fotografia nei quotidiani italiani in un modo che – devo dire – mi ha abbastanza amareggiato. Presenti c’erano Mario Calabresi, direttore de La Stampa, Angelo Rinaldi, vicedirettore de La Repubblica, Barbara Stefanelli, vicedirettore del Corriere della Sera e Roberto Koch, presidente di Forma. Sono state dette molte cose interessanti e altre su cui non mi sento d’accordo. Ecco il mio pensiero.

Con riguardo alla qualità e all’uso della fotografia le differenze fra i nostri quotidiani e gli anglosassoni sono imbarazzanti.

I quotidiani italiani pubblicano spesso sullo stesso argomento la stessa identica foto e riescono anche incredibilmente a sceglierla brutta e banale, nessuno investe sulla fotografia ma d’altronde cosa ci si può aspettare quando il parere comune, emerso durante l’incontro di sabato, – ma lo si sente dire da anni – è che il photo editor costa troppo perché andrebbe inquadrato come un giornalista (perchè cos’altro sarebbe???) con qualifica di caporedattore.

Mi, e vi, chiedo come possa esistere ancora oggi nel mondo multimediale questa scissione tutta italiana fra giornalismo e fotografia per cui si stia ancora a discutere su come introdurre la fotografia nel giornalismo.

Devo essermi persa qualcosa perché ero convinta che il fotogiornalismo fosse per l’appunto giornalismo.

Fin troppe volte qui nel mio blog vi ho stressati su come credo che la fotografia possa essere un racconto, una riflessione.

La fotografia è entrata nei musei, nelle case dei collezionisti, ci sono concorsi, festival dedicati anche solo al fotogiornalismo, ma a quanto pare i nostri quotidiani non se ne sono ancora accorti.

È vero la carta stampata non sta attraversando un grande momento e forse non ci si può aspettare che in questa fase si possa innestare una cultura dell’immagine in un paese dove l’immagine è stata per troppo tempo relegata a meri scopi illustrativi, come informazione di serie B o C rispetto ai testi.

Peccato, sì peccato, perché forse invece la sfida è proprio questa, puntare anche sulla fotografia, reinventarsi, dare nuova dignità all’immagine e creare una generazione di fotografi italiani orgogliosi di pubblicare sui nostri quotidiani.

Il New York Times è il giornale che amo sicuramente di più e che seguo costantemente anche attraverso il sito online.

Solo differenze di budget? No, non si può liquidare così l’argomento.

Il problema italiano è la scarsa cultura fotografica, i nostri quotidiani sono ignoranti, provinciali, e arroganti quando credono di poter fare a meno della figura del photo editor.

Mario Calabresi è un amante della fotografia, il suo caso è leggermente diverso e promette spero bene in futuro visto che a La Stampa lavora una mia ex assistente Irene Opezzo, davvero fra le migliori che abbia mai avuto, bravissima photo editor, instancabile, intelligente, propositiva, con una profonda passione per il suo lavoro e altrettanta cultura fotografica.

I nostri quotidianisti si lamentano che l’offerta di fotogiornalismo sia troppo esotica: milioni di fotografi che vanno a Gaza ma nessuno che documenta la quotidianità a noi più vicina, la periferia milanese, ecc forse per colpa dei concorsi internazionali di fotogiornalismo che troppo spesso premierebbero i grandi temi internazionali.

È vero? Forse in parte, ma chiediamoci come mai, è davvero solo colpa dei concorsi internazionali?

I quotidiani non hanno nessuna responsabilità?

Esiste la possibilità che un bravo photo editor sapendo meglio dove cercare sarebbe in grado di trovare anche le foto delle periferie milanesi?

E sempre lo stesso bravo photo editor sarebbe in grado di creare dei rapporti di reciproca fiducia con i fotografi, dargli i giusti consigli su come e cosa fotografare? Creare una nuova generazione di fotografi italiani?

Io sono in una posizione privilegiata, me ne rendo conto, qui da noi a Vogue l’immagine è sovrana, sarebbe impensabile non mettere il credito di un fotografo di cui pubblichiamo le foto; ma come diceva anche l’amica Renata Ferri, intervenendo alla fine della discussione da Forma, sono i quotidiani che arrivano in mano a tutti, sono i quotidiani che più dei settimanali e I mensili possono e devono piantare il seme della cultura fotografica, costruire racconti per immagini e testi, e aggiungo io parlare di fotografia.

Dove sono i responsabili della fotografia nelle pagine della cultura? Quanto si parla e approfondisce questo medium?

Negli ultimi anni il fotogiornalismo ha fatto passi da gigante nella creatività e capacità di raccontare delle storie, e il giornalismo invece? È stato capace di reinventarsi?

Sentirsi dire che il sudoku vende di più e costa molto meno di una fotografia non è accettabile, capisco che sia stato detto come provocazione, ma allora potremmo anche tranquillamente dire, scusatemi è ovviamente solo una provocazione, che parecchi articoli per quello che valgono potrebbero tranquillamente non essere pubblicati per avere più budget a disposizione della fotografia.

Vi sembra ammissibile che dopo tutte le polemiche a riguardo le fotografie nei quotidiani italiani non riportino ancora quasi mai il nome del fotografo che le ha fatte? Quando va bene è citata l’agenzia, ma come si può pensare così facendo di dare un contributo e stimolare la qualità della produzione fotografica? Ve lo immaginate un articolo senza firma? Qualcuno mi può spiegare la differenza?

I budget sempre più risicati obbligano i direttori ad attingere sempre più al materiale fotografico di agenzia a discapito dei servizi commissionati, questo è un peccato ma la mia impressione è che venga usata come scusa per la scelta di brutte fotografie quasi sempre banali. Anche qui mi dispiace ma non sono molto d’accordo, io le agenzie le vedo tutti i giorni e spesso si tratta di saper cercare.

Certo è vero che mainstream l’offerta qualitativa dei fotografi che lavorano per le agenzie, i “Mario Rossi qualunque”, come è purtroppo stato detto durante la conferenza, non è delle migliori ma ci sono anche fotografie eccezionali nelle agenzie a saper cercare.

Allora i Mario Rossi qualunque è vero possono guardare a come viene scattata ad esempio la politica dai colleghi americani sempre attenti a cercare un’angolo interessante in grado di raccontare, e concludere così una stagione durata troppo tempo di ritrattoni banali e senz’anima e sono certa che lo faranno molto volentieri quando le loro foto avranno il peso meritato e la firma sulle pagine dei quotidiani.

Entra nel club, sostieni Linkiesta!

X

Linkiesta senza pubblicità, 25 euro/anno invece di 60 euro.

Iscriviti a Linkiesta Club