La Grecia è la prima nazione dell’eurozona a dichiararsi insolvente. O, forse, bisognerebbe dire “diversamente insolvente”. Sì, perché ciò che è avvenuto nelle ultime ore ha del paradossale. Atene è fallita, ma nessuno vuole ammetterlo apertamente, tranne le tanto odiate agenzie di rating, che avevano già prezzato l’evento di oggi.
Il governo ellenico, guidato da Lucas Papademos, ha organizzato un colossale swap di titoli di Stato, che ha toccato il 56,4% del proprio debito complessivo, 206 miliardi di euro su 365. La Grecia ha convocato i creditori privati (banche, fondi d’investimenti, fondi pensione, hedge fund) e ha detto loro: «O accettate una svalutazione del 53,5% dei bond che avete in portafoglio o noi ci dichiariamo in bancarotta». Di fronte a ciò, c’è stata un’adesione “volontaria” del 95% al concambio peggiorativo. In altre parole, la Grecia si è dichiarata insolvente su quei bond che aveva emesso anni fa e li ha scambiati con altri, di scadenza più elevata e cedola più bassa. Eppure, come il presidente della Banca centrale europea (Bce), Mario Draghi, continua a dire, «la Grecia è unica». La realtà sembra però essere diversa.
Con il Private sector involvement (Psi), questo il nome dell’operazione di swap, una nazione come la Grecia ha potuto ridurre il proprio debito in un colpo solo. Del resto, i creditori privati (a esclusione della clientela retail) avevano il paracadute offerto dagli oltre 1.000 miliardi di euro dei due Ltro (Long-term refinancing operation) della Bce. Questa finestra di liquidità permetterà di diluire in tre anni le perdite ed eventualmente proteggere da altri Psi. Non è infatti escluso che si possa ricorrere di nuovo a questo metodo per una nazione come il Portogallo, come ha spiegato oggi un report della banca britannica Barclays Capital.
In un’eurozona che naviga a vista e mente perfino a se stessa, smentendosi sull’effettiva insolvenza della Grecia, i pericoli sono due: il contagio e il populismo. Sul primo si è detto tanto, ma nessuno sa in realtà che impatto potrebbe avere un default disordinato di una nazione all’interno dell’eurozona. Non si sa nemmeno quale potrà essere il responso dei mercati finanziari l’indomani dello swap greco, né nel breve né nel lungo termine. Solo il tempo dirà se il default ordinato è stata la soluzione con meno effetti collaterali. Ma è il secondo pericolo quello più rilevante. Una deriva populista e anti-euro da parte dei governi europei messi più alle strette dal nuovo Fiscal compact potrebbe portare a uno scenario in cui la richiesta di un bailout e l’attivazione di un Psi sarebbero la via più facile per uscire dai guai. Del resto, il rischio morale che sta portando nell’eurozona lo swap del debito ellenico è forse ben più elevato di quanto si possa immaginare.
-AGGIORNAMENTO 9 marzo 2012, ore 7:00
La Grecia ha comunicato che l’adesione allo swap sarà del 95,7% dopo l’attivazione delle Cac (Clausole di azione collettiva), usate per forzare l’accettazione da parte dei creditori riluttanti. Prima dell’uso delle Cac, che dovrà comunque essere approvato dall’Eurogruppo riunito oggi, le adesioni hanno toccato quota 85,8 per cento. Alle ore 14 italiane di oggi, l’International swaps & derivatives association (Isda), l’organo che disciplina i derivati finanziari, si esprimerà sui Credit default swap (Cds), le assicurazioni contro il rischio d’insolvenza di un emittente. Con l’attivazione delle Cac, l’attesa è che l’Isda decida per il pagamento dei Cds (valore nozionale netto di 3,24 miliardi di dollari), ufficializzando il default della Grecia, seppur su una parte del debito esistente.