Si dice bene qui su Linkiesta, nel Corsivo del 9 marzo, quando si puntualizza che la relazione tra un prete di quarantotto anni – che ai fini di questa riflessione mi interessa esclusivamente in quanto uomo adulto, non entro nel dibattito su Chiesa e pedofilia – e una ragazzina tredicenne ai tempi dell’avvio della liaison NON è una storia d’amore. Lui è un gigante, e lei una bambina. Eppure, molte tredicenni contemporanee ce la mettono tutta per mascherare quel residuo di infanzia dietro a orpelli sessualizzati. Spesso sono tutte agghindate, ammiccanti, scoperte; ci sono persino quelle che a dodici anni vanno a comprarsi il push-up.
Ne parla Le Figaro il 5 marzo, con riferimento al rapporto-denuncia intitolato Contre l’hypersexualisation, un nouveau combat pour l’égalité (“Contro l’ipersessualizzazione, una nuova lotta per l’uguaglianza”), stilato da Chantal Jouanno, senatrice UMP, e Roselyne Bachelot, ministro della Solidarietà e della coesione sociale. In questo report si trattano gli effetti devastanti di una sessualizzazione precoce di questi corpi prepuberi, che diventano – dice Boris Cyrulnik (neurologo, psichiatra, etologo) – friandises sexuelles, “bocconcini sessuali”. Cioè esche.
Avrei da dire che, se anche una ragazzina siffatta diventa esca per qualcuno, spetta all’adulto il compito di non mangiarsela. Ma le cose non vanno così, lo sappiamo bene, ed è per questo che dobbiamo occuparcene. Su Le Figaro si condannano i modelli veicolati dai media, la pubblicità, le solite cose. Vero, anche la nostra TV di Stato ci mette del suo, ad esempio mostrando farfalle in prima serata. Tuttavia, ancora una volta, lo sguardo deve andare più in profondità. Così, ribaltiamo la prospettiva, compiamo un rovesciamento figura-sfondo: l’ipersessualizzazione dell’abbigliamento e dell’atteggiamento non è il nocciolo della questione. Si tratta infatti di sintomi che rimandano ad altro, ad un disagio ben più profondo che riguarda la criticità del transito dall’infanzia all’adolescenza.
Leggete Risveglio di primavera, di Frank Wedekind, cioè la storia di adolescenti persi nell’incontro con una sessualità che, pervadendo il corpo nella forma della tempesta ormonale, li lascia incerti, angosciati, sprovvisti di strumenti affettivi e simbolici (le parole) per farsene qualcosa. Come Wendla: «[…] Ho una sorella sposata da due anni e mezzo, sono diventata zia per la terza volta e non ho idea di come tutto questo accada. […] Ti prego mamma, dimmelo …». La mamma non può dire a Wendla che donna sarà, o che donna dovrà diventare; nessuno può farlo, né per la femmina, né per il maschio. L’adolescente si deve arrangiare in questo: deve assumersi la responsabilità del proprio corpo sessuato, senza il comfort dell’accudimento genitoriale di cui godeva da bambino. Tuttavia la mamma potrebbe rispondere a Wendla, indicarle una strada. Non lo fa. Le dà della matta, ma come ti vengono in mente certe cose. Qualche mese dopo la ragazzina muore per le conseguenze di uno di quegli aborti praticati con un ferro da calza.
Non necessariamente l’adolescenza è un cimitero, come per i giovani di Wedekind. Ma può diventarlo se li si lascia soli a trovare pseudosoluzioni all’enigma posto dalla sessuazione, cioè l’essere femmina e l’essere maschio. L’ipersessualizzazione – proprio come il rifiuto del corpo sessuato, che si colloca sull’altro versante della stessa questione – è esattamente questo: una pseudosoluzione. Quella individuata da adolescenti e preadolescenti che brancolano nel buio, senza un adulto che, prestando loro ascolto, indichi una possibile direzione, il più possibile lontano dal “cimitero”. Il pericolo – uno fra i tanti – è infatti quello di buttarsi in pasto ai lupi.
Consigli per la lettura: Di Giovanni, G. (2010). La crisi in età adolescente. Per una clinica psicoanalitica del ragazzo e della famiglia. Roma: Borla.