GesellschaftNoi, trentenni, le vere vittime del berlusconismo

Era il '94, avevo 17 anni, quando nel mese di gennaio Berlusconi entro con un video messaggio nelle case degli italiani confermando la sua candidatura a Presidente del Consiglio. Il periodo era dif...

Era il ’94, avevo 17 anni, quando nel mese di gennaio Berlusconi entro con un video messaggio nelle case degli italiani confermando la sua candidatura a Presidente del Consiglio. Il periodo era difficile, si usciva da Tangentopoli, i partiti erano al minimo storico per quanto riguarda reputazione e fiducia.
La prima volta che ho votato è stata nel ’96. Votai la coalizione che sosteneva Prodi. Si vinse. Ma gli anni che hanno fatto da cornice a quella esperienza governativa storicamente sono e resteranno legati al nome di Silvio Berlusconi.
Sono in molti a tirare le somme di questo ventennio. Politologi, sociologi, economisti. Un periodo particolare per la nostra Repubblica, che ha visto forzare i margini di una democrazia a rischio, sempre più polarizzata, sempre più distante dalla società civile e dalla cittadinanza.
L’età anagrafica mi incasella proprio in questo periodo storico, quello della nascita e dell’ascesa di Berlusconi, di Forza Italia e del berlusconismo. Potrei affermare che sono, nei limiti, un figlio del berlusconismo. Cresciuto facendo opposizione ma, nel gioco delle contrapposizioni, la mia identità politica e culturale ha inevitabilmente risentito di questo passaggio storico.
Oggi ho superato i trentanni, vedo una intera generazione, la mia, alle prese con quello che è stato il prodotto del berlusconismo. Nello stesso tempo questa generazione si ritrova a fare i conti con la generazione precedente, quella che paradossalmente ci appare maggiormente garantita socialmente, quella – per intenderci – del lavoro a tempo indeterminato come baricentro del vivere sociale ed associato. Ma il confronto è anche con la nuova generazione che ne viene, più legata culturalmente al nuovo sistema produttivo che – ai nostri occhi – appare predisposta ad affrontare un mercato del lavoro e un sistema professionale al quale noi non eravamo stati educati e preparati.
Il berlusconismo, i venti anni che ci stiamo lasciando dietro, sono dunque stati vissuti dai trentenni come un lungo periodo di transizione, fatto di empassè e blocchi sociali, dove progressione e cambiamento non hanno cooperato.
In questo scenario, che per primo ritengo generico ma che nella ecologia di un blog può rendere l’idea, i figli del berlusconismo sono dunque quelli che vengono associati di volta in volta alla parola precario, mammone, bamboccione e così via. Costretti a confrontarsi con una formazione culturale e lavorativa che appartiene al passato ma che inevitabilmente si scontra con i nuovi requisiti professionali e lavorativi che il sistema sociale impone. Non più disponibili a “fuggire” all’estero, incapaci di vivere la flessibilità (il precariato) senza ansia ed angoscia, che vivono di miti sociali legati alla modernità e inadeguati ad affrontare la frammentazione che il post-industrialismo ha comportato.
Il berlusconismo quindi non è stato solo self-made man, comunicazione, personalizzazione della politica, no. Esso ha creato, e permettetemi il termine, sacrificato una intera generazione sull’altare del consenso, del potere a tutti i costi, e per raccogliere i cocci non basteranno decenni.

Gaber sosteneva che la sua generazione “aveva perso”, beh, caro Giorgio, la mia, la nostra generazione, non ha nemmeno potuto giocare.

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