IL CALCIO IN BIANCO E NEROOmar Sivori e quel suo ultimo Napoli-Juventus

Si chiamava "Rio Colorado" ed era il piroscafo battente bandiera argentina sul quale Enrique Omar Sivori, detto "El Cabezón", fuoriclasse in forza al Napoli di Giuseppe Chiappella, aveva imbarcato...

Si chiamava “Rio Colorado” ed era il piroscafo battente bandiera argentina sul quale Enrique Omar Sivori, detto “El Cabezón”, fuoriclasse in forza al Napoli di Giuseppe Chiappella, aveva imbarcato i suoi effetti personali il 20 dicembre del lontano 1968. Tra questi spiccava la statua a grandezza naturale che i tifosi partenopei gli avevano regalato durante la sua permanenza all’ombra del Vesuvio: da lì, appunto, sarebbe partita col resto dei bagagli con destinazione Argentina. Pochi giorni dopo Sivori l’avrebbe raggiunta in aereo in compagnia della moglie.

Da qualche settimana a quella parte si era chiuso in un religioso silenzio, cambiando persino il numero di telefono della villa di Posillipo nella quale risiedeva pur di non rilasciare più interviste. Il motivo? Aveva già dichiarato tutto quello che avrebbe voluto e potuto in merito all’ultima gara disputata contro la Juventus allo stadio “San Paolo” il precedente 1° dicembre. Quella che per lui, arrivato in Italia nel 1957 proprio per vestirne la maglia, non era un’avversaria come le altre.

Nel corso del tempo si era innamorato del club bianconero, che dovette poi abbandonare dopo una militanza durata otto anni sconfitto dal calcio del “movimiento” portato a Torino da Heriberto Herrera, il tecnico per il quale quel numero dieci con i calzettoni abbassati sino alle caviglie, i dribbling funambolici, i tunnel, le veroniche, i goals che facevano impazzire milioni di appassionati era semplicemente “un calciatore come gli altri”.
In realtà si trattava di un pallone d’oro (1961) dal carattere tutt’altro che docile: faceva incetta di espulsioni, quello che prendeva in campo spesso lo restituiva, non aveva peli sulla lingua. Lo dimostrò anche in occasione della prima volta che la Vecchia Signora lo andò a trovare nella sua nuova casa (6 febbraio 1966): sconfisse il nemico Herrera (1-0) per poi provocarlo a fine gara (“Prima di tutto grazie al Napoli, ai miei compagni e al meraviglioso pubblico. E poi, povera Juventus”)…

In quell’ormai famoso 1° dicembre accadde anche di peggio. Davanti a ottantamila persone la Juventus passò in vantaggio grazie ad un goal realizzato da Anastasi, abile a trafiggere un portiere che negli anni a venire avrebbe contribuito a scrivere alcune delle pagine più belle della storia di Madama: Dino Zoff. In soli venticinque minuti di gioco una doppietta di Montefusco consentì poi alla formazione di Chiappella di ribaltare il risultato, fino all’arrivo dell’episodio che stravolse l’incontro.

Herrera aveva deciso di affidare Sivori alle cure di Erminio Favalli, un guardiano che il fuoriclasse azzurro soffriva nonostante i ripetuti tunnel che gli riservò per quasi un tempo. L’arbitro Pieroni, che già aveva dovuto calmare i bollenti spiriti tra i due, ad un minuto dalla conclusione della prima frazione di gioco espulse “El Cabezón” per un fallo sul diretto avversario, la cui gravità venne accentuata da una simulazione messa in atto dall’ala bianconera. In quel momento terminò la sua partita ed ebbe inizio una rissa che coinvolse Panzanato (Napoli, al quale vennero inflitte nove giornate di squalifica), Salvadore (Juventus, quattro) e Chiappella (per lui due mesi di assenza forzata dalla panchina).

A Sivori, al quale di giornate ne vennero affibbiate sei, non rimase che la rabbia per un’espulsione che visse come un’ingiustizia perpetrata ai suoi danni. A fine gara, infatti, si lasciò andare ad una promessa mai mantenuta: “A Torino giocheremo in sei. Tanto, per vincere contro di voi, bastiamo pochi“. La Juventus, nonostante avesse avuto a disposizione tutta la ripresa da disputare in dieci contro nove, perse quell’incontro al “San Paolo” col risultato di 2-1.

Per l’Avvocato Agnelli Omar Sivori era “un vizio” al quale non si sottraeva facilmente. Venne ricoperto d’amore sia a Torino che a Napoli, dove formò con José Altafini una coppia di attaccanti fortissima dopo aver segnato un’epoca calcistica facendo parte del celebre trio bianconero con Charles e Boniperti. Caso volle che proprio le prodezze compiute come membro di un altro trio (quello con la maglia argentina conosciuto col nome di “angeli dalla faccia sporca”, composto con Antonio Valentín Angelillo e Humberto Dionisio Maschio) contribuirono a farlo conoscere nel nostro paese.

Giocò anche con la nazionale azzurra, difendendo i colori di uno stato che gli rimase nel cuore, così come successe con la Juventus. A San Nicolás chiamò la fazenda nella quale si era ritirato proprio “La Juventus”, in omaggio al club per il quale aveva ripreso a lavorare come osservatore nel mercato sudamericano.
Se qualcuno nel dicembre di quel 1968 gli avesse anticipato alcuni eventi della sua storia futura, con ogni probabilità lui non ci avrebbe creduto.

Le newsletter de Linkiesta

X

Un altro formidabile modo di approfondire l’attualità politica, economica, culturale italiana e internazionale.

Iscriviti alle newsletter