Régis Debray, nel suo libro Elogio delle frontiere (ADD Editore), propone che si rimettano in piedi le frontiere, altrimenti, sostiene, l’esito sarà la costruzione di muri.
L’idea è certamente interessante, ma non so se funziona.
A mio parere la frontiera, più che una linea che consente l’attraversamento, definisce spesso il limite tra ciò che è considerato espressione della propria vita quotidiana e ciò che ad essa è estraneo. Un elemento che nell’antichità, ma anche attualmente è intravisto come nemico, o almeno ostile. Un passaggio, appunto, che sancisce la trasformazione della frontiera in muro.
Questa divisione non a caso aveva anche un fondamento teologico tra un mondo interno – al di qua della frontiera – dove regnavano le divinità protettrici del gruppo, e l’esterno – l’al di là della frontiera – che si presentava non sotto la loro giurisdizione, o sotto il controllo di altri divinità protettive. Spesso quell’al di là era rappresentato da terre desertiche, selvagge, considerate luoghi in mano a potenze avverse, nemiche, maligne).Così quando un popolo voleva liberarsi di un male sorto nel suo senso , lo espelleva dai suoi confini. Così gli ebrei cacciavano il capro espiatorio (Levitico, XVI, 10); così gli indù conducevano il simbolico carro dell’epidemia fuori del territorio della comunità.
Non era solo un immaginario religioso.
Tutta la geografia degli stermini del XX secolo in Europa si è consumata in luoghi di confine, oltre ciò che si ritiene sia la “terra propria”, (da parte del nazismo nella marca di confine, dove il “nuovo ordine europeo” del regime nazista identificava la fine del proprio territorio amico e dove iniziavano le terre degli “inferiori” slavi. Lo stesso valeva per l’umanità perduta del “GULag” “ricollocata” nei luoghi lontani del grande freddo siberiano).
Non è detto che “rimandiamoli a casa loro” appartenga allo stesso tipo di cultura, ma la sua archeologia, l’archivio di immagini e di parole, per riprendere un’utile concetto proposto da Michel Foucault nel suo L’archeologia del sapere, a cui quell’espressione rinvia non è lontano da quel campo di significati. E’ per questo che non mi è mai sembrata un’ espressione innocente.