CREATIVINDUSTRIEAgenda digitale: Internet cambia l’Italia (ma chi cambierà gli italiani?)

L'Agenda Digitale oltre che l'Italia dovrebbe poter cambiare gli italiani (e le loro aziende), perché non gli e.skills, ma il sense-making sarà la competenza del futuro. Grande autorevolezza e otti...

L’Agenda Digitale oltre che l’Italia dovrebbe poter cambiare gli italiani (e le loro aziende), perché non gli e.skills, ma il sense-making sarà la competenza del futuro.

Grande autorevolezza e ottimismo all’Italian digital agenda annual forum, Internet #cambia l’Italia l’hastag di battaglia.

Il ministro dello Sviluppo Economico, Corrado Passera, ha annunciato la nascita del pacchetto di spinta (normativa) alla digitalizzazione delle imprese e del sistema Paese per il prossimo giugno.

Per Stefano Parisi, presidente di Confindustria Digitale, la realizzazione in Italia di questa Agenda Digitale potrà dare un contributo del 4-5% alla crescita del Pil da qui al 2015.

Anche Neelie Kroes, vicepresidente della Commissione Ue, responsabile di Bruxelles per l’agenda digitale, ha sottolineato quanto investire in tecnologia digitale sia redditizio ma anche il ritardo dell’Italia nella diffusione delle reti a banda larga rispetto a paesi come la Francia o la Germania – circa il 10%, il che comporta una riduzione del Pil pari all’1,5%.

Altro problema evidenziato dalla Kroes: il 41% degli italiani adulti non ha mai navigato su Internet, fra il doppio e il triplo di francesi, inglesi o tedeschi.

Anche per diminuire il cosiddetto digital divide, i tavoli di lavoro della cabina di regia per l’Agenda stanno accelerando sull’elaborazione di strategie ad hoc e progetti prioritari per la promozione di e-skills. In primis, alfabetizzazione informatica nelle scuole. Ma anche, di concerto con il ministero del Welfare, promuovere l’uso delle Ict nei vari settori professionali, del mondo del lavoro pubblico e privato, per garantire la riqualificazione e la formazione professionale continua.

Le competenze informatiche sono di fondamentale importanza per il lavoro nel prossimo futuro ma, come ha sottolineato anche il vicepresidente della Commissione europea, Antonio Tajani, la scarsità di offerta di personale specializzato rallenta la crescita nei settori tecnologici, con il conseguente rischio di pregiudicare la capacità d’innovazione e la competitività globale dell’Europa.

Per questo, la Commissione europea che ha attivato dal 2007 il progetto “Competenze informatiche – e-Skills – per il 21° secolo” con l’obbiettivo di mobilitare governi, industria, università e Ong per promuovere ulteriori interventi atti a implementare la strategia Europa 2020, un tassello essenziale dell’iniziativa Agenda digitale per la crescita e l’occupazione.

Entro il 2015, il 90% dei posti di lavoro richiederà e.skill e per quella data. Da qui al 2020, inoltre, si registrerà un aumento notevole del lavoro destinato a persone altamente qualificate.

Sembra quindi ovvio che che le competenze informatiche siano di fondamentale importanza, permettendo alle aziende e all’economia di sfruttare i guadagni di produttività attraverso la tecnologia digitale.

Ma è davvero proprio così?

Io temo che sia un po’ troppo semplicistico. O per meglio dire, che la visione, e di conseguenza, l’approccio, pecchi un po’ troppo di determinismo tecnologico: diamo agli italiani strumenti tecnologici e alfabettizziamoli su questi, e ci sarà più lavoro, le aziende saranno più produttive e competitive, l’innovazione diffusa e l’economia incoraggiata.

Bello. Ma davvero è così che funziona? Con una linearità tecno-determinata?

Non credo. Perché l’innovazione è una dinamica culturale prima che tecnologica. E le pre-condizioni necessarie all’innovazione, apertura, comunicazione, partecipazione, condivisione e collaborazione, possono essere certo abilitate e facilitate dalla tecnologia (e dalle competenze tecnologiche) ma sono anche e soprattutto conseguenza di motivazioni economiche e sociali, e di contesti culturali favorevoli.

Questo vale a livello individuale – gli italiani – che a livello dei contesti organizzativi e sociali – le aziende italiane.

A livello individuale, sorprendono i dati sulla poca dimestichezza digitale degli italiani, anche fra la popolazione giovani. Urgono provvedimenti. Tuttavia alla sorpresa segue il terrore, se si guardano i dati italiani su un’altra e ben superiore piaga: l’analfabetismo funzionale.

Nei casi più importanti, per analfabetismo funzionale si intende l’incapacità di molti individui di usare in modo efficiente le abilità di lettura, scrittura e calcolo nelle situazioni della vita quotidiana. In situazioni meno gravi vuol dire comunque non essere in grado di interpretare un articolo di giornale, o di ragionare criticamente su un processo. Ovviamente, l’analfabetismo funzionale limita gravemente anche l’interazione con le tecnologie dell’informazione e della comunicazione. Non solamente per mancanza di e.skill, ma perché non permette di costruire senso a riguardo degli scopi di utilizzo.

Ebbene, nell’ambito di una ricerca comparativa internazionale promossa dall’OCSE svolta nel 2003-2004, è venuto fuori che il 46,1% degli italiani tra 16 e 65 anni soffre di alfabetismo funzionale a vario livello.

Su che base culturale, allora, trasferire e.skill? Se oltre la mancanza di abilità e competenze tecnologiche manca a molte persone la capacità di apprendere, comunicare, avere un approccio analitico, costruire senso intorno ad esperienze e processi?

Il problema si acuisce nel momento in cui le iniziative di formazione e sviluppo sono destinate esclusivamente alle persone giovani e in crescita. Contingenze strutturali, però, come l’invecchiamento della popolazione, la mancanza di ricambio generazionale nel contesto del lavoro e la riforma del
sistema pensionistico a favore dell’allungamento della vita professionale, riempono le aziende italiane di veterani.

Un folto esercito di penne grigie, ricchi di competenze ma lontani anni luce dalla cultura dell’iperconnettività digitale.

L’ammanco culturale riguarda però anche le aziende stesse. Collaborazione, condivisione, partecipazione, apertura all’innovazione richiedono contesti culturali e sociali che non si istallano nel contesto aziendale come un software nel Pc. Il determinismo tecnologico non funziona nemmeno qui.

Prendiamo, per esempio, come le aziende italiane rispondono in conseguenza all’avvento del “Social” nei comportamenti di consumo, come nelle pratiche sociali e di business.

Moltissime aziende stanno già sperimentando i primi utilizzi di social media: corporate blogs, Facebook, Twitter, Youtube e così via. Organizzazioni grandi e piccole monitorano ormai da tempo le conversazioni online (e sempre più vi partecipano) riguardo ai loro marchi, prodotti e servizi e le applicazioni di strumenti e le pratiche di social media mirate agli obiettivi di business si moltiplicano. Il futuro del organizzazioni appare indissolubilmente legato a quelle strategie e strumenti che possano risultare efficaci in un mondo sempre più profondamente connesso.

Tuttavia, per quanto affascinante possa essere una tecnologia o la prospettiva di nuove modalità di comunicazione, condivisione e collaborazione, di fronte alla massa rocciosa e inamovibile della cultura aziendale, delle rigidità formali dei sistemi gerarchici, del rifiuto del confronto, e della disabitudine all’innovazione, qualsiasi strategia digitale è destinata al fallimento.

La pervasività della tecnologia e la moltiplicazione dei flussi di dati, così come gli strumenti di socialità e di comunicazione interpersonale, di collaborazione e di condivisione di conoscenza richiedono contesti culturali e competenze “sociali” organizzative.

Prima ancora che e.skill o competenze digitali, quindi, vi è un gran bisogno di “Intelligenza Sociale”. La competenza di sapersi connettere con gli altri per interazioni proficue, l’avere un’idea chiara della relazione che si vuole instaurare e quindi dello stile di management che si vuole adottare.

Inoltre, la moltiplicazione dei canali e degli strumenti comunicativi, sempre e ovunque, come la moltiplicazione delle fonti di dati e degli strumenti per la presa di decisione e i processi determinati sempre più dai sistemi, richiedono la capacità di costruzione di senso intorno alla tecnologia e del suo ruolo organizzativo, per poter anche scindere l’informazione preziosa e utile dal rumore ed essere in grado di rappresentare e/o sviluppare compiti e processi anche innovativi.

L’Agenda Digitale, dunque, oltre l’Italia dovrebbe poter cambiare gli italiani (e le loro aziende). Perché non gli e.skills, ma il sense-making sarà la competenza del futuro.

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