In un discorso alla National Academy of Science il Presidente degli Stati Uniti Barack Obama, nell’aprile del 2009, ha pronunciato parole esemplari. “In un momento difficile come il presente, c’é chi dice che non possiamo permetterci di investire nella ricerca, che sostenere la scienza é un lusso in una fase in cui bisogna dare priorità a ciò che é assolutamente necessario. Sono di opinione opposta. Oggi la ricerca é più essenziale che mai alla nostra prosperità, sicurezza, salute, ambiente, qualità della vita … Per reagire alla crisi, oggi é il momento giusto per investire molto di più di quanto si sia mai fatto nella ricerca applicata e nella ricerca di base, anche se i risultati si potranno vedere solo fra dieci anni o più … I finanziamenti pubblici sono essenziali proprio dove i privati non osano rischiare”. Parole importanti perché indiziano una scelta di metodo. Che ancora non appare ovunque condivisa.
Quando si afferma che la Cultura deve diventare il primo punto all’ordine del giorno nell’agenda politica di chi abbia realmente intenzione di gettare le basi per la ricostruzione economica e civile del Paese, si propone l’adozione di un modello che solo può produrre risultati non occasionali. Ricercare le ragioni che hanno spinto, da decenni, il Paese in un limbo per certi versi senza ragione, può risultare senz’altro utile per rilevare mancanze, defaillance, incapacità, ma evidentemente non consente di intervenire sul pregresso, di mutare il presente. Certo lo stupore nasce dal fatto che questa condizione appare quasi inspiegabile, considerando gli argomenti richiamati come di consueto in analoghe circostanze. Insomma, un patrimonio culturale di inestimabile valore, una tradizione di creatività artistica e scientifica individuale che non é troppo ambizioso definire eccellente, un sistema di istruzione che, nonostante riconosciuti ed evidenti problemi continua a produrre “cervelli” in grado di ben figurare in tanti dipartimenti, delle più disparate facoltà di università italiane e straniere oltre che di enti pubblici e privati impegnati sia nella produzione che nell’elaborazione di tante, differenti, tecnologie e conoscenze. Ma tant’é. A dispetto di tutto quello che siamo stati ed in parte siamo ancora, il livello medio di una cospicua parte della classe politica é decisamente scarso. Oggettivamente inferiore a quel che il ruolo necessiterebbe. D’altra parte quando si rivolge l’attenzione a quei Paesi nei quali la crescita economica é una tradizione perpetuata anche nell’attualità ed il senso civico é ampiamente diffuso, si tralascia di rilevare come, non casualmente, lì, in quegli stessi Paesi, si investa in maniera strutturale sulla cultura. Ritenere che ciò avvenga solo perché le risorse economiche sono così floride da permetterlo e non piuttosto per una scelta strategica, significa continuare a cercare la soluzione nel posto sbagliato. Forse addirittura cercando la soluzione sbagliata. Chi decide di investire in cultura lo fa coscientemente, sapendo già che la produzione e diffusione di culura, umanistica e scientifica che sia, stimola la creatività e quindi promuove l’innovazione, contribuendo a migliorare la vita civile e istituzionale di una società.
Nel 2009 la Direzione Generale per l’educazione e la cultura della Commissione Europea ha prodotto uno studio (The impact of culture on creativity, http://bit.ly/D3G33P) che dimostra con solidi argomenti e dati empirici, suffragati da una ricca bibliografia e casistica, l’interconnessione tra investimenti in cultura e istruzione, e creatività che produce innovazione in tutti i settori della vita economica e istituzionale di un Paese. La cultura spiega e dimostra l’ampia riflessione, migliora il profilo affettivo delle persone, le capacità intuitive, l’immaginazione e il senso estetico. Tratti questi che si concretizzano nella realtà del quotidiano, generando valori economici e sociali. Per esempio nuovi modi di guardare i problemi, i quali facilitano la loro efficace risoluzione, senso di identità e appartenenza comunitari che favoriscono la cooperazione, una messa in discussione di tradizioni che generalmente generano disuguaglianze o discriminazioni sociali. La cecità mostrata da una certa politica nostrana non aderendo per tempo al processo di Lisbona, cioé accettare di concorrere a trasformare l’Europa nell’economia basata sulla conoscenza, più competitiva e dinamica del pianeta, per certi versi spiega, ancora una volta, le difficoltà del Paese. Non aver compreso che sarebbe stato vitale investire in produzione di conoscenza e in valorizzazione del patrimonio culturale, seguendo una logica innovativa ed evolutiva fondata su modelli imprenditoriali appropriati. Se l’Italia si é mostrata del tutto indifferente a questa sollecitazione, un credito solo minimo hanno voluto darle gli altri Paesi europei. Al contrario ne hanno in pieno recepito il valore alcune economie emergenti, davvero basate sulla conoscenza. Come é il caso di Singapore. Riconosciuta economia con una poderosa crescita da almeno dieci anni. Ma molto meno nota per l’intenso programma di investimenti culturali sviluppati dal 1989 e culminati in un rapporto del 2002, Investing in Singapore’s Cultural Capital, che tratteggia per la cultura una funzione non esclusivamente di consumo. Ma a supporto della creatività e dell’innovazione e della qualità della vita. Nel 2008 Singapore é stata pubblicizzata nel mondo come Global City of the Arts con espliciti richiami al Rinascimento italiano. I suoi musei d’arte, storia e scienza, unitamente all’intensa produzione culturale e ai cospicui investimenti nell’istruzione e nella ricerca, rendono questa città una sorta di modello di city of culture.
Ma la cultura é anche l’humus che facilita la crescita di molto altro. Uno studio di Nikias Potrafke dell’Università di Costanza su 15 Paesi (Intelligence and Corruption, Economics Letters, 114, 1) ha rilevato che la corruzione, cioé uno dei fattori che maggiormente ostacolano la crescita economica, é più bassa in presenza di prestazioni intellettuali più alte. Confermando come il capitale cognitivo sia l’elemento determinante per lo sviluppo economico di un Paese. Gli studi comparativi, che da alcuni anni si effettuano su decine di Paesi, mettono in relazione le prestazioni scolastiche, misurate attraverso vari test di valutazione, con i livelli di libertà economica, di efficienza istituzionale e di democrazia. I risultati sono in linea con quanto sostenuto non soltanto da certi illuministi, ma anche dalla letteratura più recente nei campi della psicologia sociale e cognitiva o della neuroeconomia e dell’economia evoluzionistica. Rimane quasi inspiegabile come molta politica abbia tralasciato questi indirizzi, derubricandoli forse a questioni marginali perché di interesse ristretto. O peggio ancora di intralcio ad una crescita tutt’altro che comune.