AmicilegaliIl Paese delle meraviglie e la durata irragionevole dei processi

Alice: È tardi! È tardi! Bianconiglio: Uh, poffare poffarissimo! È tardi! È tardi! È tardi! Non solo nel paese delle meraviglie i ritardi sono all’ordine del giorno, anche nel magico mondo dei Trib...

Alice: È tardi! È tardi!
Bianconiglio: Uh, poffare poffarissimo! È tardi! È tardi! È tardi!

Non solo nel paese delle meraviglie i ritardi sono all’ordine del giorno, anche nel magico mondo dei Tribunali, gli attori e convenuti rischiano di dovere attendere anni prima che la Giustizia abbia fatto il suo corso.
Ecco allora intervenire la CEDU, che, come il bianconiglio, pone l’accento sui ritardi e “incita” i giudici nazionali a pubblicare le sentenze in un termine ragionevole.
La CEDU, infatti, costituisce un corpus normativo di natura pattizia che riconosce ai cittadini degli Stati contraenti una vasta gamma di diritti che la Convenzione stessa definisce come “diritti e libertà fondamentali dell’uomo”.
Tra queste situazioni giuridiche attive, di cui la CEDU si fa carico, assume particolare rilevanza in tema di tutela giudiziaria il diritto all’accesso alla giustizia e il diritto ad ottenere una decisione in un tempo “ragionevole”.
Per garantire effettività della tutela dei diritti cui dà riconoscimento, la CEDU ha istituito un Tribunale sopranazionale con sede a Strasburgo, cui i cittadini degli Stati contraenti possono fare ricorso in caso di lesione o violazione dei diritti stessi.
Nell’ambito del contenzioso radicato presso la Corte, negli anni ha assunto particolare rilievo numerico quello relativo alle controversie instaurate dai cittadini italiani nei confronti dell’Amministrazione interna della Giustizia per violazione del predetto diritto ad una durata ragionevole dei processi giurisdizionali.
Il volume di questo contenzioso era tale da far parlare di vero e proprio “intasamento” delle aule della Corte di Strasburgo.
Ora, poiché la CEDU prevede che alla tutela dei diritti da essa riconosciuti debbano provvedere, in prima battuta, gli ordinamenti interni dei singoli stati contraenti (principio di sussidiarietà: art. 35: “la corte non può essere adita se non dopo l’esaurimento delle vie di ricorso interne”), l’ordinamento italiano ha provveduto con la l. 89/2001 (c.d. Legge Pinto) a predisporre uno strumento idoneo a risolvere, davanti alle Corti interne, quelle stesse controversie che sono state a lungo oggetto del massiccio ricorso alla Corte CEDU.
Ciò è chiaramente desumibile innanzitutto dall’art. 2 co. I della stessa legge, il quale fa sorgere il diritto all’equa riparazione ivi prevista dalla “violazione della convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali …sotto il profilo del mancato rispetto del termine ragionevole di cui all’art. 6 par. 1 della Convenzione” (e cioè il termine ragionevole di durata dei processi: “Ogni persona ha diritto che la sua causa sia esaminata imparzialmente, pubblicamente e in un tempo ragionevole da parte di un tribunale indipendente ed imparziale”).
La natura eminentemente deflativa del contenzioso aperto presso la Corte di Strasburgo è reso poi evidente dalla introduzione, ad opera della legge Pinto, di una regola di necessaria pregiudizialità tra l’esperimento dei mezzi di tutela interna in essa previsti e la possibilità di adire la Corte Europea: qualora la Corte fosse adita senza il previo esperimento delle vie interne, essa dovrà dichiarare l’improcedibilità del ricorso.
Dal punto di vista strettamente procedurale, la l. 89/2001 ha attribuito competenza funzionale a conoscere delle controversie in esame alle singole Corti d’Appello.
La “patata bollente” è così passata, in prima battuta, al Giudice italiano.
La legislazione interna prevede quindi che, in caso di durata eccessivamente lunga di un procedimento giurisdizionale, il cittadino che abbia subito tale intollerabile ritardo possa adire il giudice interno così individuato, onde ottenere un “equo indennizzo” nei confronti dello Stato.
Per poter accedere alla tutela indennitaria in parola, la l. Pinto (art. 2 co. II), impone che l’accertamento della irragionevole durata del processo vada parametrato a:
1. La “complessità del caso”;
2. Il “comportamento delle parti e del Giudice, nonché quello di ogni altra autorità chiamata a concorrervi o a comunque contribuire alla sua definizione”.
A questo punto, occorre ricordare che ogni parte del processo può lamentare un ritardo se il giudizio di primo grado sia durato più di tre anni, due per l’appello, mentre la durata dei gradi successivi sia stata maggiore di un anno per ciascun grado (giudizio di rinvio compreso).
Il ricorso deve essere depositato entro sei mesi dal giorno in cui il giudizio è stato concluso (rectius: dal momento in cui la sentenza è divenuta definitiva).
L’equa riparazione prevede il risarcimento di danni sia patrimoniali che non patrimoniali. In relazione ai primi, occorre dimostrare che il lungo iter processuale, di cui si lamenti l’eccessiva durata, abbia causato specifici danni al patrimonio (ad esempio, la perdita di reddito, ovvero l’impossibilità di acquisire proventi), quanto a quelli non patrimoniali, la Corte di Cassazione si è allineata alla CEDU.
La Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, infatti, afferma come i danni non patrimoniali costituiscano una conseguenza della violazione, in quanto è normale che l’irragionevole lunghezza di un processo produca per le parti (e nel prosieguo vedremo come ci si riferisca a proprio TUTTE le parti) stress e sofferenze morali, che non occorre dimostrare.
Tuttavia, la giurisprudenza ha stimato come il danno non patrimoniale sia ricompreso tra i 1.000,00/1.500,00 euro di indennizzo per ogni anno di ritardo rispetto alla durata ragionevole del processo (ovvero: superiore ai tre anni se si tratta di Primo Grado, ai due nel caso di Appello, a uno se è in Cassazione).
Ciò detto, una delle possibili problematiche attinenti ai ricorsi ex legge Pinto riguarda quello in cui il ritardo sia lamentato non dalla parte vittoriosa ma da quella soccombente in giudizio.
In tale ipotesi, ci si chiede se il diritto all’equa riparazione di cui all’art. 2 della L. n. 89/2001 spetti anche a quest’ultimo.
In una recente sentenza, la Corte di Cassazione civile ha affermato che il diritto all’equa riparazione per violazione del termine di durata ragionevole del processo spetti proprio a tutte le parti indipendentemente dal fatto che esse siano risultate vittoriose e soccombenti e dalla consistenza economica ed importanza del giudizio (Cassazione civile , sez. VI, sentenza n° 35/2012). Se ciò è vero, lo è anche il fatto che in peculiari ipotesi (ricorrenti soccombenti, cause bagattelari) la CEDU ha ritenuto che potessero essere liquidate a titolo di indennizzo per il danno non patrimoniale da eccessiva durata del processo somme complessivamente e notevolmente inferiori a quella di mille euro annue di consuetudine liquidate.
In conclusione, alla fine del “viaggio” processuale, le parti vittoriose o soccombenti potranno, in caso di ritardi, adire nuovamente la Giustizia (questa volta, come detto, innanzi alla Corte d’Appello) per essere risarcite…
Arrivata in fondo a quel viaggio, che durò moltissimo, Alice disse:
“Bene! Dopo una caduta come questa, se mai mi accadrà di ruzzolare per le scale di casa, mi sembrerà meno che nulla; anche a cader dal letto non mi farebbe nessun effetto! Ma dove sono?… e quello è il coniglio che stavo rincorrendo”. Coniglio: Perdinci! Veramente ho fatto tardi.

AM

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