La pelle di zigrinoIl vincitore delle prossime elezioni politiche in Italia

  Avevamo promesso al Direttore di questo giornale uno scoop e, finalmente, manteniamo fede all'impegno: siamo in grado di rivelare chi sarà il vincitore delle prossime elezioni politiche, anche se...

Avevamo promesso al Direttore di questo giornale uno scoop e, finalmente, manteniamo fede all’impegno: siamo in grado di rivelare chi sarà il vincitore delle prossime elezioni politiche, anche se le nostre doti divinatorie non ci permettono ancora di svelare quando le consultazioni si terranno.

Cominciamo per gradi. Nelle ultime settimane l’ABC della politica italiana, Alfano Bersani e Casini, ha sfidato l’impopolarità difendendo il finanziamento pubblico ai partiti. Ci permettano di osservare: con qualche ragione ma, soprattutto, con molti, troppi torti. Ma il disegno della triplice era ancor più ambizioso. Si trattava, infatti, di difendere col finanziamento la stessa dignità della politica, secondo i tre alfieri sotto l’ingiusto scacco dell’antipolitica, rappresentata, par di capire, dal movimento capeggiato da Beppe Grillo, al quale i sondaggi accreditano suffragi prossimi al 7%: coi tempi che corrono un Fini, un Rutelli o un Vendola per simili percentuali venderebbero l’anima a Mefistofele.

Su Grillo e sui suoi famigerati grillini ci basti dire, a mo’ d’opinione, che non ci pare che la politica italiana possa essere accomodata da una accolita di luddisti, pronti a smontar tutto ma palesemente incapaci di mettere in piedi, al posto delle istituzioni derelitte, qualcosa di più di un modesto avanspettacolo. C’è da dire, però, che ogni volta che un movimento di protesta prende piede, è troppo comodo, per chi viene sfidato, imputare le colpe a chi si innamora della prima alternativa possibile. Soprattutto a sinistra, dove temendo la transumanza di voti, e non comprendendo che la forza del grillismo sta nella sua trasversalità anti-politica, si è pronti a riscodellare sul piatto la vecchia minestra del voto-utile, del servizio reso alle destre, insomma a quelle forme aggiornate della vecchia scomunica dei social-fascisti, magistralmente rappresentata dall’Orwell de La fattoria degli animali, con il maiale Napoleon che per difendere le sue nefandezze ammoniva gli altri animali rivoluzionari “Non vorrete che torni Mr Jones?!”. Magari confidando sul servizio reso da qualche intellettuale o maitre à penser col tassametro acceso e pronto al nolo della propria coscienza.

Per difendere la politica dai lanzichenecchi dell’antipolitica, dunque, i nostri tre hanno reagito in preda all’istinto di autoconservazione, prima congegnando una riforma della legge elettorale a loro uso e consumo, poi tentando di mantener salde le mani sulla cornucopia del finanziamento pubblico. L’esatto contrario di quello che avrebbero fatto tre politici degni di questo nome: conservare le istituzioni, rinnovando i loro attori, e venendo così incontro alla pressante domanda di ricambio, anche generazionale, che emerge dall’opinione pubblica. Ma su questo la politica italiana è tradizionalmente sorda. Ci hanno fatto attraversare, dopo la fine dei partiti ideologici, rispettivamente: le stagioni della botanica (con querce, ulivi, margherite, girasoli, neo-garofani), quella più effimera dell’entomologia (con api, coccinelle); e quella della fauna generica, con asini, elefanti ed altri animali minori. Sempre fedeli al principio che si cambiano le etichette ma non le facce. L’esatto contrario di quello che avviene nei paesi “normali” di dalemiana memoria, dove i politici vanno e vengono, con sconfitte ed allori, ma i partiti sono sempre gli stessi, perché capaci di rinnovarsi.

Perché la classe politica italiana, oggi, è più che mai convinta che la propria vittoria derivi più dalle imperscrutabili leggi della storia che non dai loro meriti, ragion per cui ha così attecchito il mito del sondaggio elettorale, che i nostri leggono con la stessa sollecitudine con cui le sartine un tempo leggevano gli oroscopi: per trovar conforto delle loro sventure o, alla meglio, per convincersi che il loro avvenire è inscritto negli astri.

Noi non disponiamo di sondaggi e, ancor meno, dei mezzi necessari per commissionarli. La nostra è una previsione che sconta, come nota metodologica, una certa approssimazione. Ma ha un fondamento politico non banale. Da liberali, siamo rimasti convinti che con le elezioni politiche non si conferisca alcuna delega ai nostri rappresentanti, i quali, dai tempi di Edmund Burke, agiscono senza mandato imperativo. Gli elettori, con il voto, non fanno altro che esprimere un giudizio su chi li ha governati sino a quel momento, confermandogli, o ritirandogli, la fiducia.

Ora, immaginiamoci il giudizio che gli elettori italiani potranno formulare, nelle urne, rispetto alla attuale classe politica. La vulgata vorrebbe imputare solo all’indifendibile Achille Lauro della Brianza le colpe dei mali del nostro paese. Facile ed autoassolutorio. Ma non sufficiente.

D’altronde, già le ultime elezioni regionali avevano dimostrato che il vero primo partito in Italia è il partito del non voto, dell’astensione (al quale, noi, aggiungiamo anche le due correnti della scheda bianca e del voto nullo).
Ci direte: ma questo non è uno scoop! Forse è vero, ma di solito i commenti sul peso degli astenuti sono il piatto forte del post elezioni. Noi intendiamo apprezzare, a futura memoria, il significato del rifiuto, del disincanto che molti, ed in numero crescente, provano nei confronti non della politica, ma di chi ne pretende, difendendolo, il monopolio della rappresentanza.

Il Partito del Non Voto, quindi, è portatore di un preciso messaggio politico: nonostante gli ammonimenti, nonostante le minacce di corresponsabilità, nonostante le promesse, i sostenitori, consapevoli o meno, del non voto dimostrano di aver tratto la lezione della Filosofia del rifiuto di Flaiano, consapevoli che “tutto viene utilizzato contro di te, in una società che è chiaramente contro la libertà dell’individuo e favorisce […] il malgoverno, la malavita, la mafia, la partitocrazia, che ostacola la ricerca scientifica, la cultura, una sana vita universitaria, dominata dalla Burocrazia, dalla polizia, dalla ricerca della menzogna, dalla tribù, dagli stregoni della tribù, dagli arruffoni, dai meridionalisti scalatori, dai settentrionali discesisti, dai centrali centripeti, dalla Chiesa, dai servi, dai miserabili, dagli avidi di potere a qualsiasi livello, dai convertiti, dagli invertiti […] dagli studenti bocciati, dai pornografi, truffatori, mistificatori, autori ed editori”.

Diciamo di più. Il Partito del Non Voto fa mostra di non credere al mito del panpoliticismo, per cui tutto ciò che ci riguarda debba essere influenzato, determinato, giustificato politicamente. Invece, è vero l’esatto contrario: in una società minimamente liberale non tutto, e per fortuna, deriva – o dovrebbe derivare – dalla politica. Come insegnava, non a caso, quel gran liberale di Manzoni, per cui “tutti i provvedimenti di questo mondo, per quanto siano gagliardi, non hanno virtù di diminuire il bisogno di cibo, nè di far venire derrate fuori di stagione”. Principio che dovrebbe essere il presupposto per limare le unghie al potere pubblico e politico.

Vi è un’altra obiezione alla quale merita di fornir risposta: ma gli astenuti non sono politicamente omogenei. Vero, verissimo. Ma in questo non vediamo una così tale differenza tra gli elettori dello stesso PD, dove c’è chi è convinto di rinverdire i fasti del compromesso-storico e convive con i sostenitori della nouvelle vague veltroniana, tutta retorica democrat e colletti rigorosamente botton-down.

E vero che ai politici normalmente preoccupano di più i voti dati a qualche scheggia impazzita che non la misura degli astenuti. Anzi, in un certo qual modo, gli astenuti possono fare un favore a questa o quella fazione, aiutandola a vincere elettoralmente.

Ma a noi, che della politica siamo occhiuti osservatori, pare che questo atteggiamento sia, soprattutto nell’attuale temperie, dimentico di una delle tante lezioni impartite dalla Storia, quella con la maiuscola. E per bocca di uno dei più chiacchierati, incoerenti e opportunisti dei suoi attori, il conte di Mirabeau: che in Assemblea Nazionale, il 15 luglio 1789, ricordò, rivolto al re Luigi XVI, come “il silenzio dei popoli è un monito per i re”.

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