Delle dimissioni del Senatùr, al secolo Umberto Bossi, potremmo forse dire ciò che disse Talleyrand della morte di Napoleone: più che un avvenimento, una notizia.
Bossi è caduto per un antico vezzo italico: l’accondiscendenza verso i propri figli. Ironia della sorte, una debolezza che la vulgata ha sempre attribuito ad una propensione più meridionale che nordica, o meglio, visto che parliamo di leghismo, padana.
Per carità: è vero che la politica non è arte da collegiali ingenui. Ma noi, che della politica abbiamo una somma considerazione, e che riteniamo di aver fatto i dovuti conti con la realtà, tanto da aver dismesso quel tanto di idealismo tipico della gioventù, noi, dicevamo, non ci siamo mai risolti nel credere che, nella patria di un mal masticato machiavellismo, la politica dovesse ridursi ad una prateria per cagliostri, nel migliore dei casi, o modesti magliari, nella peggiore, e più frequente, delle evenienze.
La cronaca degli ultimi mesi pare essersi presa la briga di smentirci, ed a noi, su questo versante, non resta che attendere il giudizio della magistratura.
Ci interessa, però, tentare un abbozzo di giudizio politico sul leghismo, visto che i recenti fatti hanno per certo ammaccato la pretesa incorruttibilità e trasparenza dei politici padani.
Alle origini il leghismo nasce come rivolta economica, sociale, politica.
Rivolta economica perché le pretese formiche del nord produttivo si dichiararono stufe di continuare a trainare il carretto dell’economia italiana mentre le cicale del mezzogiorno attendevano a braccia conserte che piovesse qualche contributo, a fondo perduto, esatto dalle ingenti tasse versate sopra il Po.
Rivolta sociale, perché gli arricchiti agricoltori ed ex operai divenuti imprenditori in proprio ritenevano umiliante esser trattati da minus habentes, da animali da soma di un ceto medio impiegatizio (pubblico) o di insegnanti, mal retribuiti, che venivano a frapporre la modesta dittatura del bollo tondo, eterna vessazione di chi ha da fare e non deve perder tempo a compilare scartoffie. Oppure, si arrogava il diritto di insegnare ai tanti piccoli trota di paese, magari avendo pure l’ardire di bocciarli se non erano capaci di far di conto o di scrivere senza lordare le pagine.
E fu, alfine, rivolta politica, perché il montante terzo stato padano non sopportava più d’esser rappresentato a Roma da politici estranei per cultura (sic!), estrazione sociale e, ancor di più, estrazione territoriale.
Per carità, non è che tutte le rimostranze fossero prive di fondate ragioni. Ma, come usa dire, è il tono che fa la musica, e quello usato dai leghisti guidati da Bossi rimase sempre quello della recriminazione, della rivolta, della protesta.
Le rivoluzioni, infatti, per esser condotte debbono portare con sé almeno un’idea forza unificante. Un movente politico. Qualcosa di più degli slogan, spesso insopportabilmente da trivio, sventolati a destra ed a manca dal popolo leghista.
Quello di Bossi fu un capolavoro di tempismo, di senso della realtà: Bossi fu l’uomo giusto, il vessilifero di una montante insoddisfazione contro la politica tradizionale, nel momento giusto, capace come pochi di comprendere da che parte tendesse lo spirito della folla. In particolare della sua folla, quella della immaginifica, ed inesistente, Padania.
Sulle spalle del movimento leghista salirono, poi, i più svariati avventurieri. Un po’ come i sofisticati Girondini salirono sulle spalle dei sanculotti, al tempo della incipiente Rivoluzione francese. Gli uni, come gli altri, con l’ambizione di arrivare presto al governo e tenervi discorsi, farsi applaudire ed acquistare gloria imperitura, loro che senza la rivolta leghista sarebbero vissuti e morti in provincia, piccoli avvocatucci, modesti impiegati, destinati ad un facile oblio.
L’aver agganciato il tram della rivolta leghista, invece, ha fatto godere loro le gioie del dominio, sempre pronti a concedere alla folla quello che la folla esige, a caso, devoti unicamente all’amore della popolarità. Sempre motivati dal solo obiettivo di tenere in caldo la passione della rivolta padana, più che non un determinato disegno politico.
Perché il leghismo è – ed è senz’altro stato – un coacervo di opposte visioni politiche.
Agli inizi sostenitore e divulgatore di un neopaganesimo rozzo, involuto al punto da far brillare per senso di equilibrio l’anticlericalismo becero dell’Asino di Podrecca. A parole liberista, al punto da pretendere una doverosa cura dimagrante dello stato, per forzatamente ridurre il salasso che l’erario praticava ai contribuenti, ovviamente padani.
Salvo poi riconvertirsi, per convenienza elettorale, e diventare difensore dello spirito più profondo, e perciò solo fermamente cattolico, del popolo padano, baluardo contro l’altrimenti inesorabile invasione islamica e la corruzione dei nostri costumi.
E prendendo il gusto dell’occupazione di ogni anfratto politico e di ogni propaggine economica che dalla politica è dipendente, i leghisti divengono i sostenitori della politicizzazione delle Fondazioni bancarie, della lottizzazione, mercé un novello Manuale Cencelli, di ogni municipalizzata, partecipata, collegata pubblica. Al punto sfacciati da mercanteggiare la funzione di garanzia della Banca d’Italia, ai tempi dell’affaire Unipol-Bnl-Antonveneta, pur di salvare dalla bancarotta la Credieuronord, la banca padana. Chi si oppose a questa deriva, assai romana secondo gli standard dell’etica pubblica leghista, pagò a caro prezzo, come l’ex capogruppo alla Camera Alessandro Cè, prima promosso per esser rimosso, poi obbligato alle dimissioni dall’incarico di assessore alla sanità lombarda perché si era preso il lusso di criticare la gestione di Formigoni avallata dalla Lega Nord.
La Lega Nord aveva mietuto il proprio successo grazie al montante sentimento dell’antipolitica che vedeva nella Democrazia Cristiana una piovra tentacolare propensa ad occupare ogni spazio pubblico, comprese le propaggini economiche, finanziando il consenso elettorale con una scriteriata spesa di bilancio. E vedeva nel Partito Socialista craxiano l’esattore implacabile del suo modesto, ma determinante, peso elettorale, che veniva spregiudicatamente mercanteggiato sul tavolo politico.
E’ bizzarro come il leghismo, impersonato per oltre venticinque anni da Bossi, si sia dimostrato l’allievo rude tanto dello spirito di occupazione democristiana, quando della spregiudicatezza elettorale del socialismo craxiano, con il senatùr nei panni del brigante Ghino di Tacco.
E da liberali ci tocca dar ragione al vecchio Carlo Marx: è proprio vero che la storia si ripete sempre due volte. La prima volta in tragedia, la seconda in farsa.