Solitamente si è portati a ritenere che gli strumenti d’indagine (in campo sociale come in quello fisico o biologico) siano delle semplici tecniche, ovvero strumenti neutrali di raccolta di informazioni. Non è così. Allo stesso modo si pensa che le tecniche nascano, si diffondano e s’impongano perché migliori di altre; e vengano poi abbandonate per il motivo opposto. Anche questa visione, per così dire, “ontologica” (cioè del maggior valore intrinseco di una tecnica) è dubbia. Ci sono esempi di tecniche e metodi nati quasi contemporaneamente che tuttavia si sono affermati in momenti storici diversi. Per cui una visione “ontologica” della metodologia non è in grado di spiegare perché il successo di determinata tecnica sia giunto così in ritardo.
La nascita dell’intervista
Questa prospettiva “culturalista” sembra particolarmente calzante per il metodo dell’intervista. Come tutti sanno, esso consiste nel raccogliere informazioni attraverso il dialogo con un soggetto (l’intervistato). E’ quindi un metodo “narrativo”, nel senso che l’intervistatore si fa raccontare episodi, opinioni, sentimenti, emozioni.
E’ difficile dire quando il metodo dell’intervista sia apparso per la prima volta. Forse fu l’ingegnere minerario francese, e poi sociologo, Frédéric Le Play (1806-1882) che per primo cominciò a usarlo alla fine degli anni 1840. Le Play fu il precursore dell’idea che si dovessero raccogliere informazioni originali, cioè direttamente dai soggetti studiati. Tuttavia la sua intuizione dovette aspettare almeno quarant’anni per diffondersi. In campo giornalistico, invece, la prima intervista su un giornale apparve nel 1859; e nel 1863 inserire interviste nei giornali era già diventata una pratica diffusa (Davies 2009).
La “società dell’intervista”
Potremmo ora chiederci: perché l’intervista nacque poco più di 150 anni fa? Perché proprio allora e non prima (oppure dopo)? Perché ci mise così tanto ad affermarsi e non ebbe subito il suo successo (metodologico) che meritava?
Nel dare una risposta a questi interrogativi Gubrium and Holstein (2001: xii) sostengono che l’intervista non è una semplice tecnica, ma è diventata parte integrante della società contemporanea, la quale ha creato le condizioni sociali e culturali per il suo emergere. L’intervista nasce in particolare momento della storia della società incarnandone alcune forme culturali. Più precisamente, l’intervista si diffonde alla fine dell’Ottocento come prodotto della modernità, interpretandone il “modern temper” (Riesman e Benney, 1956). L’intervista è quindi un prodotto di quelle mutate relazioni sociali (Benney e Hughes 1956), in cui comportamenti che prima erano considerati disdicevoli ora vengono gradualmente accettati e poi reputati normali; come ad esempio la conversazione tra estranei (infatti intervistato e intervistatore solitamente non si conoscono), esporre pubblicamente le proprie opinioni (e non è sempre stato così e non lo è ancora in molte società), e più recentemente mettere in piazza le proprie emozioni e sentimenti.
Senza queste condizioni culturali e sociali, l’intervista non si sarebbe affermata.
L’intervista è una delle “tecnologie del self”, direbbe Michel Foucault, uno degli apparati per l’invenzione moderna della soggettività, una pratica istituzionale volta a creare l’idea di individuo e mettere in luce i punti di vista personali. Peraltro, come ricorda lo stesso Foucault (1975), per affermarsi l’intervista ha avuto bisogno di due forme culturali: una a lei precedente (la confessione cattolica) e l’altra a lei successiva (il colloquio psicoanalitico). Di entrambe l’intervista riproduce molte delle caratteristiche.
Qualche tempo fa Atkinson and Silverman (1997) hanno acutamente sottolineato che noi viviamo nella “società dell’intervista” (interview society), una società dove intervistare è diventato un’attività fondamentale e le interviste sembrano elementi centrali nel dare senso alle nostre vite.
La pervasività dell’intervista
Infatti, da una parte l’intervista (intesa in senso lato) è una delle forme sociali oggi più diffuse di raccolta delle informazioni: dal poliziotto al medico, dal commesso al giudice, dall’assistente sociale al manager, dall’insegnante allo psicoterapeuta, dal confessore al giornalista, dal selezionatore del personale all’operatore di call center, tutti praticano quotidianamente una qualche forma di intervista. D’altra, radio, stampa e TV trasmettono quotidianamente l’esposizione (e sempre più spesso l’esibizione) del proprio self: i talk show, gli spettacoli d’intrattenimento, i reportage, i sentimenti catturati al bordo di un campo di calcio o le emozioni rubate sui luoghi di una tragedia o di un disastro, sono solo l’ultima trasformazione dell’intervista.
La pervasività di questa particolare forma di relazione sociale (l’intervista, appunto) ha fatto la fortuna di molte agenzie di ricerca di mercato; e non è un caso che le interviste (considerando complessivamente sia quelle “strutturate”, come il sondaggio, che quelle poco strutturate come le cosiddette “interviste in profondità”), sia il metodo fortemente dominante all’interno della ricerca sociale e di mercato. E non perché sono il metodo migliore, bensì perché intervista e questa società si costituiscono mutualmente (Silverman 1997: 248): da una parte l’intervista per poter nascere e svilupparsi ha avuto bisogno di un particolare tipo di società; dall’altra questo metodo di ricerca rinforza la società stessa che lo ha prodotto.
Quando le interviste non funzionano…
Chi ha esperienza nel campo della ricerca sociale e di mercato avrà notato che non sempre il metodo dell’intervista funziona. A volte risulta difficile intervistare le persone. Per diversi motivi: una marcata diffidenza verso l’estraneo o una diffusa omertà (proprie di società non modernizzate, anche nel nostro Paese); la non abitudine a esprimere pubblicamente le proprie opinioni (propria di Paesi con regimi autoritari, con deficit di democrazia sostanziale); il non essere capaci a esprimersi secondo le modalità dialogiche che l’intervista richiede (proprio di società con alti tassi di analfabetismo); il non essere abituati ai rituali e forme comunicative che un metodo occidentale come quello dell’intervista impone (pensiamo a molte società africane o asiatiche).
In tutti questi casi il principale motivo di difficoltà nell’usare il metodo dell’intervista sta nella mancanza, in questi contesti e Paesi, di una “società dell’intervista”.
Per concludere
La mancanza di una “società dell’intervista” è un bene o un male? Non lo so. E forse, dal punto di vista metodologico, poco importa saperlo. Quello che è importante sapere è che i metodi non sono universalmente adeguati e che prima di impiegare un metodo occorre riflettere se è presente quel tipo di società a lui più funzionale.
Attualmente, da noi, la società dell’intervista è certamente il modello societario dominante. Per quanto resisterà? Possiamo intravvederne già oggi un declino? Lo sapremo nel prossimo post.
Giampietro Gobo (Università degli Studi di Milano)
Riferimenti
Atkinson, P. e Silverman, D. (1997), Kundera’s Immortality: The Interview Society and the Invention of Self’, in «Qualitative Inquiry», 3, 3, pp. 324-45.
Benney, M. e Hughes, E.C. (1956), Of sociology and the interview, in «American Journal of Sociology», 62, pp. 137-42.
Davies N. (2009), Flat Earth News: An Award-winning Reporter Exposes Falsehood, Distortion and Propaganda in the Global Media, London: Vintage books.
Foucault, M. (1975), Surveiller et punir, Paris, Gallimard; trad. it. Sorvegliare e punire: nascita della prigione, Torino, Einaudi, 1976.
Gubrium, J.F. e Holstein, J. (2001)(a cura di), Handbook of Interview Research, Thousand Oaks, Ca., Sage.
Reisman, D. e Benney, M. (1956), Asking and Answering, in «Journal of Business of the University of Chicago», 29, pp. 225-36.
Silverman, D. (1997), Qualitative Research: Theory, Method and Practice, London, Sage.
Smith, T. (1990), The first straw? A study of the origins of the election poll, in «Public Opinion Quarterly», 54, 1: 21-36.