L’analisi di Paul Krugman pubblicata oggi su la Repubblica sembra scritta per il governo Monti. Il presidente del consiglio ha affermato di recente che il keynesismo vecchia maniera non funziona più, eppure dalla diagnosi del premio nobel emergono proprio i problemi che in questo momento stanno paralizzando l’esecutivo di Monti. Ecco la diagnosi del premio nobel.
INNANZITUTTO la buona notizia: si ammette finalmente che le misure di austerità non funzionano. Ma ecco quella cattiva: almeno a breve termine, le prospettive di cambiamento appaiono quanto mai scarse.
È in quest’ultimo mese che la favola della fiducia è morta. Negli anni scorsi, gran parte dei politici europei, al pari di molti dei loro omologhi ed esperti americani, sono stati prigionieri di una dottrina economica distruttiva: una teoria secondo la quale i governi avrebbero dovuto fronteggiare la depressione economica non già aumentando la spesa per compensare il calo della domanda privata, come indicano i trattati di riferimento, ma attraverso il rigore fiscale e l’abbattimento della spesa pubblica, in nome dell’equilibrio di bilancio.
I critici hanno detto fin dall’inizio che in una fase depressiva l’austerità non avrebbe fatto che aggravare la situazione; ma i rigoristi sostenevano il contrario, puntando sul fattore fiducia. «Le politiche atte a ispirare fiducia non saranno certo di ostacolo alla ripresa economica, anzi la promuoveranno», dichiarava allora Jean-Claude Trichet, ex presidente della Banca centrale europea; una tesi riecheggiata al Congresso di Washington dagli esponenti repubblicani. In altri termini, come dissi allora, si pensava alla fiducia come a una fata che sarebbe tornata a premiare i politici per le loro virtù fiscali.
Fortunatamente, oggi molte voci autorevoli hanno finito per ammettere che si è trattato di un mito. Ciò malgrado, però, non si intravedono cambiamenti di rotta a breve termine in Europa, e neppure negli Usa, che peraltro non hanno mai pienamente adottato la dottrina rigorista. Ma anche qui l’austerità è stata imposta di fatto, sotto forma di un drastico abbattimento della spesa e di pesanti tagli occupazionali, sia a livello degli Stati che a quello locale.
La dottrina fondata sul richiamo ai miracoli della fiducia suonerebbe familiare a Herbert Hoover (presidente Usa nel 1929 – ndt ). Di fatto, nell’Europa di oggi la fede in quel mito non si è rivelata più fondata che nell’America di quegli anni. Negli Stati periferici europei, dalla Spagna alla Lettonia, le politiche di austerità hanno prodotto una serie di tracolli, con livelli di disoccupazione paragonabili a quelli della Grande Depressione; la Fata Fiducia non si è vista da nessuna parte – neppure in Gran Bretagna, dove due anni fa la svolta liberista era stata osannata sulle due sponde dell’Atlantico. In tutto questo non vi è nulla di nuovo: si sa da tempo che le politiche di austerità non mantengono le loro promesse. Ma questa verità ovvia, i politici europei l’hanno negata per anni, ostinandosi ad annunciare che a breve le misure adottate avrebbero dato i loro frutti, e celebrando come un trionfo ogni più lieve segno positivo. In particolare, un Paese a lungo attanagliato dalla crisi come l’Irlanda è stato citato a esempio del buon esito delle politiche di rigore per ben due volte: all’inizio del 2010, e più recentemente nell’autunno 2011. Ma ogni volta, il preteso successo si è rivelato un miraggio. A tre anni dall’avvio del suo programma di austerità, l’Irlanda non mostra ancora alcun segno reale di ripresa, dopo un crollo che ha portato il tasso di disoccupazione vicino al 15 per cento. Eppure, in queste ultime due settimane qualcosa si sta muovendo. Sembra che alcuni avvenimenti – tra cui la crisi del governo olandese dopo la sua proposta di misure di austerità, i consensi riscossi al primo turno delle elezioni presidenziali francesi da un François Hollande vagamente anti-rigorista, o le notizie sulla Gran Bretagna, dove secondo un rapporto la situazione è oggi peggiore che nel 1930 – abbiano finalmente aperto una breccia nel muro della negazione. All’improvviso, tutti riconoscono che l’austerità non funziona.
Ora però la domanda è: cosa si farà a questo punto? Temo di dover rispondere: non molto.
Innanzitutto, se da un lato i rigoristi sembrano aver lasciato ogni speranza, dall’altro non depongono l a paura, sostenendo che se non si continua a tagliare la spesa – in barba alla depressione economica – si rischia di finire come la Grecia, con un costo del debito alle stelle.
Ora, la tesi secondo la quale solo l’austerità può placare i mercati finanziari si è sempre rivelata errata, così come il mito della fiducia foriera di prosperità. A quasi tre anni da quando il Wall Street Journal annunciava a gran voce l’attacco dei bond vigilantes al debito Usa, il costo del denaro, lungi dall’aumentare, si è addirittura dimezzato. E il Giappone- Paese che per oltre un decennio ha subito le più fosche previsioni sulle sorti del suo debito – ha ottenuto questa settimana crediti a lungo termine a un tasso d’interesse inferiore all’1%.
Oggi molti seri analisti sostengono che l’austerità fiscale in un’economia depressa ha probabilmente effetti autodistruttivi, in quanto comprime l’economia e penalizza i redditi a lungo termine; e quindi non solo non risolve i problemi legati al debito, ma al contrario li aggrava.
Ma se la favola della fiducia sembra ormai morta e sotterrata, restano in auge i racconti da brivido sul tema del deficit. Di fatto, i sostenitori della politica britannica respingono ogni invito a ripensare le loro scelte, che pure dimostrano di non dare i risultati sperati, sostenendo che ogni cedimento in materia di austerità porterebbe a un’impennata del costo del denaro.
Oggi viviamo in un mondo governato da un’economia politica-zombie. La constatazione dell’erroneità di tutte le sue premesse avrebbe dovuto ucciderla; e invece continua ad arrancare sulla stessa strada. E nessuno può sapere quando questo regno dell’errore avrà fine.