Una firma di tutto riposoModesta ideona: tagliare del 5/10% i redditi netti dei dipendenti pubblici

Riflettiamoci su: un’espansione di stampo keynesiano della spesa pubblica per fare ripartire l’economia non può che essere finanziata con un aumento della tassazione, se si vuole mantenere il pareg...

Riflettiamoci su: un’espansione di stampo keynesiano della spesa pubblica per fare ripartire l’economia non può che essere finanziata con un aumento della tassazione, se si vuole mantenere il pareggio di bilancio e mantenere fede agli impegni presi a livello europeo. Chi cita Keynes pensa al periodo tra le due guerre mondiali, quando il peso del settore pubblico sul PIL era estremamente più basso, e di conseguenza la pressione fiscale era altrettanto bassa.

Sono passati più di ottanta anni e la pressione fiscale in Italia è vicina al 45%. Non sono un esperto di contabilità nazionale, ma è facile dire che la pressione fiscale su cittadini e imprese che pagano le tasse è in media ancora maggiore. Quali spazi ci sono qui e ora per aumentare ancora la spesa pubblica? Io non ne vedo nessuno. Gli unici spazi sensati vanno nella direzione opposta, nella direzione di diminuirla, questa spesa pubblica.

Dopo il dicembre delle imposte contenute nel decreto SalvaItalia, non pochi italiani attendevano il messianico annuncio dei tagli alla spesa escogitati dalla spending review di Piero Giarda, ministro dei rapporti con il Parlamento ma soprattutto decano degli scienziati delle finanze. Ma ecco l’intervista alla Stampa del 10 aprile, in cui Giarda raffredda i bollenti spiriti annunciando che i tagli possono solo avere obiettivi più limitati, ed in particolare quello di garantire il pareggio di bilancio, con poche speranze di diminuire il carico fiscale.

Non ho tra le mani dati demoscopici giornalieri o settimanali, ma –a parte le liberalizzazioni- mi sembra che un numero importante di italiani abbia interrotto la luna di miele con il governo Monti esattamente dopo questa intervista. Andreotti potrebbe persino pensare che Giarda l’abbia fatta apposta, per trovare una sponda nell’opinione pubblica a tagli non così voluti all’interno dell’esecutivo.

Sia quel che sia, l’opinione pubblica si è desta, così come segnalato dall’editoriale di oggi di De Bortoli sul Corriere, che si allinea ad Alesina e Giavazzi nel lodare le virtù espansive di una manovra finanziaria che taglia spesa pubblica, per dare spazio a tagli delle imposte. E come tagliarla, questa spesa pubblica? Nel mondo della perfetta informazione, della razionalità e dell’assenza di strategismi politici, si taglia in maniera microeconomicamente efficiente, ovvero dove vi sono gli sprechi più macroscopici. Ma il processo attraverso cui si scoprono le aree di maggiore inefficienza richiede tempo e può essere dolosamente e tranquillamente rallentato da chi non vuole davvero i tagli, o vuole addossarli a qualche altro gruppo sociale o politico.

E allora? Allora meglio dei tagli lineari, ad esempio un 5% o 10% dei salari netti di tutti i dipendenti pubblici, con un risparmio annuo che va dai 3,6 ai 7,2 miliardi di euro all’anno, tenuto conto che i salari netti (secondo i calcoli di Oscar Giannino ripresi da Aldo Lanfranconi su NoiseFromAmerika) sono all’incirca 72 miliardi di euro. Perché ragionare in termini di salari netti? Perché ragionando in termini lordi si dimenticano le partite di giro date dalle imposte che lo stato direttamente trattiene.

Che cosa possono finanziare questi tagli? Diminuzioni delle imposte. Quali? Qui mi taccio: la mia idea è che attualmente in Italia non si possa non essere liberisti, e volere dunque una riduzione del peso del settore pubblico nell’economia. Data questa scelta iniziale, restano tutti gli spazi per essere liberisti di destra o di sinistra, con le necessarie conseguenze sul “taglio” da dare al taglio delle imposte.

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