ParsifalBossi sotto inchiesta, sotterrato dalla sua dinastia

Nella tumultuosa vicenda di Tangentopoli e nella rivoluzione giudiziaria che segnò la fine della Prima Repubblica ci fu un solo segretario di partito in carica condannato in tre gradi di giudizio p...

Nella tumultuosa vicenda di Tangentopoli e nella rivoluzione giudiziaria che segnò la fine della Prima Repubblica ci fu un solo segretario di partito in carica condannato in tre gradi di giudizio per “finanziamento illecito ai partiti”. Quell’unico segretario era Umberto Bossi condannato con pena definitiva a otto mesi con sentenza della Cassazione nell’autunno del 1995. Che allora fosse un leader di primo pelo, la guida di un movimento, la Lega Nord, oggettivamente troppo giovane per aver partecipato alla lunghissima stagione della corruzione e delle ruberie della politica apparve evidente come una palese “incongruità”. E altresì come una opaca, se non inquietante, espressione di una magistratura dai toni “maramaldi”, trascinata dalla macchina di una giustizia capace, nel sovraccarico normativo da Azzeccagarbugli, di una sua inesorabile e umanissima stupidità.

Semmai quella condanna, certamente ineccepibile per i crismi i timbri e i bolli della legge, consentì al “barbaro” (così lo si definiva nel Palazzo, quelli “sognanti” arriveranno molto dopo) di passare facilmente per vittima dello Stato ingiusto e facilitargli il compito e la simpatia popolare nella conquista di un consenso nordista radicato e diffuso.

Oggi, quando declina la Seconda Repubblica, l’inchiesta che lo vede imputato (insieme a due figli) per le storiacce di denaro malgestito e dilapidato dai forzieri della Lega, il sentimento collettivo è certamente diverso, dentro un clima di rancore sociale che perdona sempre meno alla Casta politica e ai suoi addentellati dinastici i privilegi, gli sprechi e le grandeur private foraggiate con pubblico denaro.

L’allora sempiterno segretario della Lega nord (in carica fino a un mese fa) firmava come d’obbligo tutti i bilanci, pur con mano tremante e con le forti limitazioni del suo male. La responsabilità formale è certa: forse umanamente più difficile, anche se tecnicamente corretto, appiccicargli il teorema classico del “non poteva non sapere” (pur se è stato di fatto applicato in passato in maniera ben più selettiva di quanto non si ricordi). L’uso perlomeno maldestro, se non truffaldino, dei quattrini della Lega è impossibile da respingere o da contestare. I reati vanno certamente perseguiti. Ma mai come in questo caso emerge chiaramente come l’intervento delle toghe, pur sacrosanto e obbligatorio, arriva con la sanzione penale buon ultimo : quando cioè il giudizio politico e il verdetto democratico del popolo sovrano si è già espresso con la sentenza delle urne elettorali.

Un ultimo accenno: nel pieno del suo vigore intellettuale e del suo successo politico il Bossi spiegava anche a chi qui scrive che comprendeva appieno il messaggio di San Paolo “eunuco per amore”. Ovvero che il fuoco di una passione ideale, anche quello terreno per il progetto politico e l’uso del potere, doveva per forza fare a meno dei legami e del coinvolgimento parentale. E invece, complice la malattia e la sua fisica debolezza, lo ha visto (più o meno del tutto consapevole) succube di quel “familismo amorale” così poco padano che ha fatto dei suoi figli, della loro mediocre arroganza e dei vizi piccolo-borrghesi da giovani parvenu , il facile bersaglio di un odio sociale e insieme la ragione malinconica di un diffuso disincanto.

Se sopravviverà alla tempesta la Lega, come comunità politica, è già oltre: che al Bossi tocchi adesso il calvario e il disonore dell’inchiesta giudiziaria è il vero dramma di un tramonto senza più gloria. Anche perché tutti i motivi della sua vibrante protesta e della sua fortuna politica per il Nord restano intatti e non si spengono certo con lui.

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