Chiedo scusa per il titolo, non particolarmente oxfordiano.
L’economia cosiddetta freak può essere intelligente. Può esserlo se e solo se ricercatori rigorosi si pongono questioni intelligenti con una metodologia o un punto di vista originale, arrivando a conclusioni statisticamente difendibili.
Quando, però, una moda diventa il semplice escamotage con cui diffondere (e pubblicare) ricerche a dir poco assurde, è il segnale, forse, che la misura è colma. Il caso riguarda un articolo che ha avuto molta eco sul blog di Freakonomics, prima, e che in Italia è stato giustamente stigmatizzato sulla bella pagina di Fabio Sabatini.
“Male organ and economic growth: does size matter?” è un articolo ‘scientifico’ (virgolette come pinze per afferrare tutto il ridicolo che sta nello studio) sul rapporto tra crescita economica e lunghezza del pene. La mia prima curiosità, nel leggere l’abstract di questo articolo e nell’accorgersi che non si trattava di uno scherzo, fu piuttosto operativa. Come avrà raccolto i dati l’autore?
Essendo stato pubblicato sulla Working Paper Series dell’Università di Helsinki, mi ero divertito a immaginare estenuanti sessioni di sauna, con discreti e garbati righelli tra un asciugamano e una secchiata d’acqua.
Ma Tatu Westling, l’autore dello studio, non ha fatto nulla di tutto questo: l’autore si serve, invero, di un dataset disponibile su web, il World Penis Average Size Studies Database, un sito che, tra le varie amenità, raccoglie appunto misure medie di peni di tutto il mondo. Il paper è teso a mostrare il ruolo giocato dalla lunghezza del membro nell’accelerare le misure di crescita del PIL (Monti prenda nota, o anche no).
A parte le facili ironie: “Il rigore non c’entra un cazzo” e in attesa che esca la replica italiana di questo studio, “Dei delitti del mio pene“, l’unica nota sconfortante è accorgersi di quanto il dibattito scientifico, a volte, possa toccare fondi tanto imi.
Lasciamo perdere la non-chalance, invero diffusa, con cui i ricercatori di tutto il mondo confondono i concetti di correlazione e causalità; lasciamo perdere l’affanno interpretativo con cui l’autore, comunque, si preoccupa pure di trovare delle spiegazioni al presunto fenomeno.
L’amarezza si riassume tutta con una sorta di ovosodo accademico, quello che non va ne su nè giù: dopo l’idiozia del celodurismo ideologico, serviva proprio quello empirico?
Alla prostata l’ardua sentenza.