Il settimanale inglese The Economist ha dedicato la copertina del numero in edicola alle elezioni presidenziali francesi, definendo il candidato socialista Hollande “piuttosto pericoloso”.
Di per sé questo fatto non sarebbe una notizia, ma la prendiamo come valido spunto per la nostra riflessione.
Non a caso, infatti, il titolo dell’Economist è stato ripreso dal Corriere della Sera che, a firma Stefano Montefiori, ha dedicato un approfondimento ai famosi endorsement del settimanale, tra i quali i nostri lettori italiani ricorderanno quelli contro il Cavalier Berlusconi.
Il commento del Corriere si chiude, però, alimentando in noi un dubbio: a leggere l’articolo, ed ancor di più il sommario, infatti, pare che la prassi di appoggiare un candidato sia qualcosa di simile ad una scommessa, comprensibile in un paese, come l’Inghilterra, di inveterati ed incalliti scommettitori.
Invece, secondo noi, più che di una scommessa, si tratta di un esercizio di coerenza editoriale e, quindi, di una tutt’altro che deprecabile libertà.
Ed in un paese, come l’Italia, dove le iniziative editoriali troppo spesso sono rassegnate al rispetto della legge aurea della lottizzazione e molte di esse campano solo grazie alle generose elargizioni pubbliche, e dove i lettori si rivolgono ad un giornale più per trovare conferma dei propri pregiudizi e dei propri stereotipi, dove i giornali sono buoni solo come balsami delle proprie idee, che si preservano solo perché insonorizzate da qualsiasi voce contraria, il caso dell’Economist costituisce un utile esempio di come l’informazione dovrebbe ambire ad essere, e di cosa un lettore dovrebbe cercare.
Si chiaro: esistono molteplici modelli ed esempi di giornalismo. E pure il mito del giornalismo anglo-americano, per molti un ideale da imitare, ha subito di recente più di qualche ammaccatura, basti pensare alla penosa sorte cui sono costrette testate come il Wall Street Journal o il Times di Londra dopo esser cadute nelle mani del magnate Murdoch (per inciso: una delle tante infatuazioni della sinistra italiana, in chiave anti-berlusconiana).
Il settimanale inglese, dicevamo, ha una propria linea editoriale, chiaramente orientata verso il liberalismo economico e politico. Non si può definirlo un settimanale laico, solo perché in un paese come l’Inghilterra un tale aggettivo non spiegherebbe nulla, ma non vi è battaglia civile in cui l’Economist non abbia coerentemente militato a favore della libertà individuale, giungendo, ad esempio, a far propria la battaglia anti-proibizionista di Milton Friedman.
Ma il liberalismo di cui l’Economist si fa alfiere da quasi centosettantanni, non si identifica con questo o quel partito politico, nemmeno, dove esso esiste, con un qualsiasi partito liberale. L’Economist è liberale e tale resta a modo suo, e non alla maniera di nessuna professione di fede scritta nelle tavole di un qualsivoglia partito.
E’ sulla scorta di quella linea editoriale, della sua identità, che è solito seguire i fatti, fornirne le sue interpretazioni ed esprimere i suoi giudizi, sino al punto di dichiarare la sua virtuale adesione a questo o a quel candidato, virtuale perché – come dovrebbe esser noto – i giornali non hanno diritto di voto, ma contribuiscono ad informare e formare l’opinione pubblica.
Tanto che gli articoli dell’Economist sono senza firma, perché tutti a loro modo coerenti con la linea editoriale dichiarata e mai dissimulata.
In Italia siamo, purtroppo, abituati ad altro.
Da un lato, non pochi anelano al mito della stampa, dell’informazione obiettiva, ufficiale, contrabbandando così la negazione stessa della libertà di stampa che vive, e fiorisce, non con le note ufficiali, ma con la massima autonomia e libertà di espressione. Perché, sia detto una volta per tutte, il mito dell’informazione obiettiva altro non è che il nostalgico ritorno del modello della Pravda che, non a caso, significa “Verità”, o delle veline ufficiali dei ministeri delle propaganda. L’oggettività, l’imparzialità assoluta è una assurdità, posto che è impossibile mutare la testa agli uomini ed impedir loro di vedere e giudicare i fatti con il proprio cervello: non sono parole nostre, ma di un incallito liberale come Einaudi, autore col quale gli sparuti lettori di queste colonne speriamo abbiano preso confidenza.
Dall’altro lato, non sono pochi coloro che, pur professando il giornalismo, hanno creduto utile e conveniente imitare il Nemorino dell’Elisir d’Amore, vendendo la libertà e facendosi soldati di questa o quella causa precostituita. Non mancano, ahinoi, tra i giornalisti italiani tristi esempi di questa abdicazione dalle proprie responsabilità, dal compito di mantener fede al principio primo della libertà di stampa, che altro non è, per dirla come Orwell, che la libertà di scrivere e di dire le cose che le persone non vogliono leggere e non vogliono sentirsi dire.
Troppi tra loro hanno preferito ridursi al misero ruolo di pennivendoli, o se ammantati di un qualche prestigio, di convenienti pennacchi al servizio di un qualche interesse dissimulato, menando vanto di far finta di scrivere su giornali formalmente indipendenti, ma al servizio degli interessi di quell’editore o di quell’inserzionista.
Giornali sulla carta liberi, liberissimi, il cui unico contributo è stato quello di degradare il già degradato e corrotto linguaggio, facendo troppo spesso massiccio ricorso alla bile come inchiostro per le rotative.
E persino gloriose testate costrette ad inseguire l’opinione pubblica infarcendo le loro edizioni con gli aggiornamenti sentimentali della soubrette e del ballerino, modesto surrogato italico della giovane coppia reale inglese, oppure tenendoci nevroticamente al corrente circa l’andamento di quel programma spazzatura che è il Grande Fratello.
Va da sé che in un simile habitat, dove i giornali lottano l’impari battaglia per gli inserzionisti e per il proprio sostentamento contro l’oligopolio televisivo, capace da solo di razziare, e prosciugare, le risorse pubblicitarie, sia difficile comprendere la ricetta di un modo diverso di fare giornalismo. In una paese, come l’Italia, dove testate corrive parteggiano per i propri avversari della Tv, dai quali indirettamente, e solo per aggirare le ridicole leggi sull’editoria italiana, dipendono, comprendiamo che si stenti a cogliere l’esempio dell’Economist.
Vi provò, oltre cinque anni fa, l’allora direttore del Corriere, Paolo Mieli, che in vista delle elezioni politiche del 2006 aveva osato vergare un editoriale in cui sosteneva la coalizione di centro-sinistra. Apriti cielo: non bastò la cautela di circoscrivere l’opinione a se stesso, e non furono poche le critiche che ricevette, farcite con i dati della presunta perdita di lettori, ovviamente addebitabili all’imprudenza del direttore. Tanto che si corse immediatamente per riparare il presunto errore, la svista, l’eccesso.
A noi, però, tornano in mente, e non a caso, le parole di Walter Bagehot, già direttore in epoca vittoriana dell’Economist, che scrivendo del Times, ricordava come i “Times” non sono il frutto dell’opera né dei compositori, né degli stampatori, né dei macchinisti, né dei correttori né dei redattori. Come ogni altra impresa economica, il giornale ha una struttura monarchica: i Times sono creati, di giorno in giorno, dal direttore. Esso, e solo esso, ne è il cervello invisibile, la mano nascosta che crea ed offre al pubblico il giornale, colui che ha il compito di creare e ricreare quel bene inafferrabile ed indefinibile che il contratto tra lui ed i lettori.
In queste particolare forme di monarchia giornalistica è così spiegabile il segreto della stampa, il segreto della sua libertà e della sua autorevolezza. Libertà ed autorevolezza che non sono costrette ad inseguire la vittoria, il consenso.