Il Fondo Monetario Internazionale ha ieri formulato previsioni positive riguardo l’economia tedesca. Ma, oltre ai numeri, ha lanciato un messaggio più politico.
Secondo il FMI “in Germania ci sono tutte le condizioni per un ripresa guidata dalla domanda interna“, tuttavia il deterioramento della crisi in Grecia, Spagna, Portogallo e Irlanda, “potrebbe tramutarsi in conseguenze negative per il sistema economico tedesco, attraverso canali economici e finanziari”.
L’istituto ha rilanciato la preoccupazione rispetto agli squilibri delle bilance commerciali, indicando appunto nella domanda interna tedesca la possibile soluzione: “differenze e sbilanciamenti all’interno dell’Eurozona possono essere ridotti attraverso una serie di aggiustamenti nel sistema economico tedesco”.
Infine il FMI raccomanda alla Germania di “articolare più in dettaglio la visione comune dell’Unione monetaria, cambiata a seguito della crisi che ha colpito l’Area unica negli ultimi anni”.
Traduzione, nostra: la Germania deve spingere la domanda interna in modo che le esportazioni dei paesi debitori, i PIIGS, possano riprendere e deve accettare gli Eurobond, come del resto il capo economista del Fondo, Olivier Blanchard, aveva raccomandato nei mesi scorsi.
Ma cosa vuol dire in particolare rilanciare la domanda interna tedesca? Alcuni grafici pubblicati dal giornale tedesco Spiegel danno l’idea di cosa è accaduto in Germania negli ultimi 10-12 anni.
Il grafico mostra come dal 2000 i redditi da lavoro sono cresciuti in modo notevolmente più lento rispetto ai profitti, il che determina un equilibrio tra redditi e profitti che riduce la propensione media al consumo e ha quindi riflessi sulla domanda interna.
Vediamo ora come i lavori precari si siano moltiplicati:
I contratti “non tradizionali” (cioè non a tempo indeterminato) sono raddoppiati in particolare tra i giovani assunti e aumentati di un terzo sul totale, andando in parte a sostituire i contratti tradizionali, calati del 20%. Tra questi lavori precari, spiccano in particolare i cosiddetti “minijobs”, cioè “lavoretti” a poche centinaia di euro.
Ecco quindi un grafico che evidenzia le differenze di retribuzione tra contratti temporanei e la media di tutti i lavori:
Qualsiasi insieme si consideri, sia quello dei contratti che prevedono formazione (vocational training, simile al nostro apprendistato) che quelli che non la prevedono, i salari risultano notevolmente minori nel caso dei contratti non tradizionali.
Il grafico seguente illustra la differenza nella crescita dei salari tra i lavoratori “garantiti” da contratti collettivi e il totale dei contratti a partire dal 2000:
La differenza è di nove punti, in termini reali. Ma è particolarmente significativo rilevare che complessivamente i salari hanno perso il 3% di potere di acquisto in 10 anni. Anche la crescita dei salari dei lavoratori “garantiti”, +6%, è relativamente bassa in realtà, se si considera che il PIL tedesco, in termini reali, è cresciuto dal 2000 al 2010 di oltre 9 punti. Non si tratta quindi solo di “minijobs”. Anche i salari dei contratti a tempo indeterminato sono relativamente fermi, cioè crescono meno della produttività e meno del Prodotto.
Detto in altri termini, i tedeschi accrescono la loro produzione mentre contengono i salari, e pertanto i lavoratori tedeschi non riescono ad acquistare la produzione in eccesso, la quale è destinata invece ad altri mercati: in particolare noi, l’Italia, e gli altri PIIGS, come abbiamo già rilevato.
Ecco quindi l’origine degli squilibri commerciali. Se in Germania i salari riprendessero a crescere, come chiedono i sindacati, ciò da una parte renderebbe i prodotti tedeschi più cari e meno competitivi rispetto a quelli dei PIIGS e dall’altra accrescerebbe la domanda interna tedesca, permettendo più facilmente la penetrazione commerciale dei PIIGS che, a quel punto, venderebbero prodotti a prezzi relativamente minori.
Da qui discende una lezione più generale: i sindacati, contribuendo con la loro azione alla crescita relativa dei salari, possono fungere da stabilizzatori del sistema economico, evitando eccessive differenze tra le classi sociali, contribuendo a non far precipitare la propensione media al consumo e, come nel caso europeo, scoraggiando le industrie a concentrarsi eccessivamente sulle esportazioni, con danni al di fuori dei confini nazionali.
Anche l’esperienza americana sembra andare in questa direzione.