Sembra inevitabile non pensare che il movimento animalista, almeno nelle sue connotazioni generali, non sia un movimento “incazzato” …
Ed infatti, è così.
È facile osservare, nelle discussioni, nelle lotte, nelle campagne, che hanno ad oggetto il nostro rapporto con il non-umano, come la discussione degeneri facilmente in una contrapposizione tra “veg” e “non-veg”.
In parte, questa contrapposizione, deriva proprie dalle filosofie antispeciste dei primi anni ’70. Se la scelta vegetariana, come sostiene Peter Singer, è il modo migliore di dar conto ad una liberazione animale allora è lecito aspettarsi che gli animalisti, in buona fede, colpevolizzino chi mangia carne.
Tuttavia, questa forma di attivismo, ha effettivamente dei problemi strutturali: quelli di chi contesta le pratiche individuali. È difficile convincere della propria buona fede quando si dice agli altri cosa devono o non devono fare, specie se quello che fanno è previsto, tutelato, e accettato dal senso comune e dalla giurisdizione di ogni stato su questo pianeta.
Il vero problema, almeno questo è quello che sostengo, è che un movimento schiacciato sulle sue posizioni alimentari rischia di far travisare completamente la sua posizione nel dibattito che vuole suscitare sullo sfruttamento animale. Gli animalisti – o antispecisti – non dovrebbero presentarsi come dei “non mangiatori di qualcosa”, ma come i portatori di un’idea diversa di mondo: per questo non basta più limitarsi al mondo attuale.
Il veganismo è una pratica che non può mai farsi ragion d’essere di un movimento con pretese politiche, o di una filosofia morale. Attenzione: non è punto di partenza, ma è sicuramente punto di arrivo, ma di cosa? Della vera tesi che un movimento antispecista dovrebbe veicolare: la plausibilità etica e politica della liberazione animale, la possibile esistenza di una società senza sfruttamento animale, e l’attuazione di un programma affinché questo possibile possa attuarsi.
L’antispecismo, come movimento, deve rivendicare come necessario, in termini etici e politici, sottrarre gli animali non umani al gioco di superiorità perenne dell’Homo Sapiens. Ma non è costringendo la maggioranza degli individui al vegetarismo: è facendosi portatori di un nuovo e rinnovato rapporto con i non-umani che non sia, in alcun modo, un rapporto di dominio.
Questa speranza, e richiesta continua, di un nuovo rapporto che cambi radicalmente il sociale non è auspicabile in quanto vegani (cioè portatori di uno stile di vita) ma in quanto antispecisti (cioè portatori di una filosofia di vita).
Inoltre, e forse più importante, un movimento animalista degno di questo nome ha una prerogativa che nessun altro movimento ha avuto e potrà mai avere: parla per dar voce a chi non può.
Dobbiamo dunque comprendere che non siamo semplicemente portatori di una tesi, ma testimoni di un dolore.
Ogni singolo maiale deve essere rappresentato dalle nostre richieste, ogni singola morte ci deve indignare.
Un movimento attento a problemi locali (vivisezione, vestiario, ecc.,), o portatore di pratiche individuali (vegetarismo; boicottaggio di farmaci sperimentati, ecc.,) non è che sia un movimento incompleto: non è proprio un movimento.
L’antispecista non deve, tuttavia, abusare della voce dell’animale senza nome di cui è testimone, ma è necessario che riesca a far emergere che la sua posizione non è “sua”: che non lotta per se stesso ma per gli altri, che rivendica per l’animale ciò che lui (forse) ha: il diritto a vivere, e ad essere lasciato in pace.
Tutti vegani dunque?
Si, ma come mezzo, e mai come fine.