Capitalismo e salameIsraeliani e palestinesi, in guerra ma con la stessa moneta

È possibile per due nazioni di fatto in guerra (Israele e Autorità palestinese) mantenere la stessa moneta? Anche se la storia economica dimostra il contrario, questa è una delle caratteristiche ch...

È possibile per due nazioni di fatto in guerra (Israele e Autorità palestinese) mantenere la stessa moneta? Anche se la storia economica dimostra il contrario, questa è una delle caratteristiche che regolano i forti e contraddittori legami tra Anp e Israele.

È la Storia di questa terra che crea le sue stesse contraddizioni. La Storia della Terra Santa inizia con la Storia dell’uomo (i primi stanziamenti umani risalgono al periodo tra il 10.000 e l’8000 a.c) ed è segnata da un tratto fondamentale della specie umana, la guerra. Una terra legata non solo dalla guerra ma anche da un’unione monetaria: lo Shekel era la moneta legale in questi territori nel 3000 a.C. Anche sotto il mandato britannico, nei primi anni del Novecento, i commerci erano regolati da una moneta comune, la sterlina palestinese, scambiata da musulmani, ebrei e cristiani.

La storia dimostra che solo la presenza di un’istituzione (o centro di potere forte), è in grado di mantenere un regime monetario stabile e condiviso come ad esempio, fu la prima “vera moneta europea”, il denaro (moneta d’argento) istituita da Carlo Magno alla fine dell’VIII secolo. Dal Medioevo alla rivoluzione francese, passando per le signorie, quando i sovrani si trovavano minacciati da una guerra trasformavano il corso della moneta del loro regno, tramutandolo da corso legale a corso forzoso, alterando (e a volte anche annullando) il valore intrinseco reale della moneta (oro o argento) permettendo così di affrontare le ingenti spese di guerra. Durante il secolo breve, a causa di due guerre, quella Mondiale e quella Fredda, furono distrutti i due tentativi di regimi monetari internazionali, il Gold Standard e il Gold Exchange Standard. È chiaro che, mantenere un medesimo regime monetario durante un conflitto è un evento straordinario. Ma nel conflitto arabo-israeliano vi è proprio una moneta comune con valore costante.

Israele e Palestina, immersi in una logorante guerra,  utilizzano la stessa moneta, il NIS (New Israel Schekel). L’euro nasce come moneta di un’Unione europea “unita” dopo un secolo di guerre. Il NIS nasce nel 1986 come moneta di controllo che permette di mantenere la Palestina in un limbo economico, alimentando lo stato di dipendenza tra i due territori. Anche se il Protocollo di Parigi del 1994 (art.4) permette ai territori Palestinesi anche l’utilizzo di altre valute, la moneta israeliana, soprattutto in Cisgiordania, rimane la più diffusa e scambiata.

Filiale della Bank of Palestine a Betlemme

Una moneta comune come l’euro presuppone un mercato aperto, comune e condiviso. Può esistere tra due entità divise da un muro alto 8 metri (il muro di Berlino era alto 4 metri) un mercato, libero e senza barriere?. Sicuramente no, ed ecco così, un’ennesima contraddizione nel legame arabo-israeliano: una moneta comune tra due economie chiuse e ingabbiate. Quella tra Israele e Palestina è un’unione monetaria forzata tra due economie totalmente differenti. Le differenze, dati alla mano, sono abissali. Il PIL pro capite per Israele è di 31 mila dollari, mentre quello palestinese di 3 mila dollari. Con una crescita pari al 4,8, Israele presenta un tasso di disoccupazione pari a 5,6 %. La Cisgiordania, con il 46% (80% nella striscia di Gaza) della popolazione sotto la soglia di povertà, una crescita del 7%, ha un tasso di disoccupazione del 16,5, giustificando i grandi flussi migratori arabi verso Israele, e il conseguente aumento delle “rimesse” che in parte possono spiegarne la crescita.

La dipendenza monetaria palestinese è confermata dal tasso d’inflazione (che dipende dalla moneta fisica in circolazione, più moneta porta ad un aumento dell’inflazione): i territori palestinesi presentano un’inflazione pari al 3% mentre Israele del 9%. Una bassa inflazione nel mercato palestinese, ovviamente perché la banca di Palestina non stampa shekel, che invece sono forniti, con il contagocce (per questo c’è poca inflazione) o nei momenti di eccesso di moneta, dalla banca di Israele. Israele è leader nell’high-tech (anche Warren Buffett ha acquistato l’80% di Iscar, azienda israeliana), l’economia palestinese ruota intorno ad una piccola industria tessile, artigianato e agricoltura (coltivazione dell’ulivo principalmente).

Soldatesse israeliane non in servizio a Gerusalemme

Questa grandi differenze tra le due economie conduce ad altre due contraddizioni che rendono difficile la valutazione della validità di due leggi economiche: la parità dei poteri d’acquisto e la legge del prezzo unico. Entrambe le leggi verificano il valore di una moneta (rispetto a un’altra) attraverso l’analisi dei tassi di cambio (e le differenze dei prezzi di determinati prodotti) tra due valute, per capire se una moneta sia apprezzata o deprezzata (per una moneta deprezzata, che ha meno valore, è più costoso comprare beni esteri perché più costosi). In Israele e Palestina queste leggi non valgono. In questa terra, è lo Shekel stesso (e non due differenti monete) che, in contraddizione con queste leggi, può “apprezzarsi (aumentare di valore) e deprezzarsi” nello spazio di pochi chilometri. Se in Israele un pacco di Winston blu costa cinque euro nei Territori palestinesi costa tre, e così per un palestinese che percepisce lo stipendio in Israele è più conveniente comprare sigarette nella sua terra. Stessa forte variazione per una golosa pita alla falafel e humus: dai sei euro di Gerusalemme (Israele) ai due euro di Betlemme (Palestina).

Questa peculiare caratterista dello Shekel porta alla seconda contraddizione: l’emigrazione araba nei territori israeliani, creando una dipendenza da manodopera araba per il governo israeliano. Da una parte sono gli stessi arabi, nella maggior parte dei casi provenienti dalla Cisgiordania, che sostengo la crescita israeliana (come nel settore edilizio) ma che allo stesso tempo ostacolano quella palestinese. Molti palestinesi emigrano, in un modo o nell’altro, verso Israele creando una situazione di stallo economico caratterizzato da una reciproca necessità, un equilibrio quasi Pareto efficiente. Una situazione dove apparentemente nessuno si danneggia poiché i palestinesi hanno un buono stipendio (israeliano) da spendere in una povera economia (quella palestinese) e gli israeliani hanno manodopera a sufficienza. Un equilibrio quasi Pareto efficiente perché alla fine ciò che è danneggiata è l’economia comune della Palestina, senza manodopera, investimenti e crescita.

La questione allora è: perché mantenere la stessa moneta tra due economie diverse, e in stato di conflitto? Per rispondere a questa domanda dobbiamo inchinarci alla forza dell’economia, forse più forte di un intero esercito. Ho individuato due conseguenze principali dalla condivisione dello Shekel tra Israele e Anp: primo, la banca di Palestina deve pagare tasse (sotto forma di tassi d’interesse) alla banca di Israele per ricevere la moneta fisica da usare come mezzo di scambio. Secondo, essendo i territori palestinesi non ufficialmente riconosciuti come Stato, vi è l’impossibilità per il “governo” palestinese di emettere buoni del tesoro e quindi investire, per esempio in infrastrutture idriche (controllate da Israele). Concretamente, Israele controllando la moneta gestisce totalmente l’economia palestinese, cosa del tutto normale, considerando anche ciò che sta avvenendo in Europa all’interno della nostra unione monetaria, dove l’economia più forte detta regole alle economie più deboli. Una dipendenza-controllo economico e bancario tra due entità nemiche, che implica uno stato di guerra nonostante la mancanza gli scontri militari (la seconda intifada si è “conclusa” 5 anni fa). Mentre la guerra armata divide, la guerra economica, contraddittoriamente, unisce e crea forti vincoli: monetari, occupazionali e di crescita.

Quest’unione-condivisione monetaria e territoriale ha però dei costi sia per Israele sia per l’Anp. Secondo il report The economic costs of the Israeli occupation for the occupied Palestinian territory pubblicato dal ministero dell’Economia palestinese nel settembre 2011, il peso dell’occupazione israeliana, nei territori palestinesi, è tale da assorbire circa l’84% del Pil palestinese. Le perdite palestinesi derivano sia dai costi d’occupazione diretti sia dai costi indiretti. Tra i costi diretti derivanti dalle occupazioni vanno ricordati i 150 milioni di dollari che Israele guadagna dal controllo del commercio di prodotti estetici del Mar Morto, i 143milioni derivanti dalla gestione del settore turistico nel distretto di Gerico e i 900 milioni di dollari per lo sfruttamento di miniere e cave in Cisgiordania (escludendo il controllo delle acque).

Graffiti sul muro che divide Israele dai territori palestinesi a Betlemme

I costi indiretti sono invece rappresentati soprattutto dalla perdita di manodopera palestinese che si rivolge al mercato israeliano più competitivo. Questi dati appena elencanti sicuramente rappresentano delle perdite per i Territori Palestinesi e dei guadagni per lo Stato israeliano, ma l’economia è una medaglia con due facce. Anche Israele è “dipendente” dai territori e dai rapporti con il popolo palestinese. Una pace tra questi due territori procurerebbe gravi danni e costi. Una pace implicherebbe una quasi sicura crisi occupazionale nel mercato del lavoro israeliano. Ovviamente, una tra le prime fonti occupazionali per Israele è rappresentata dall’esercito, considerando che ogni cittadino israeliano uomo deve sottoporsi a un servizio di leva della durata di tre anni (due anni per le donne). La crisi occupazionale aumenterebbe i sussidi alla disoccupazione, per i soldati senza armi, che peserebbero ulteriormente sulle casse dello Stato israeliano, considerando i 170 milioni di sussidi statali spesi per il mantenimento degli ebrei ultra ortodossi. La pace, che solitamente porta benessere e democrazia, in questo caso, rompendo la complementarietà monetaria e i legami militari-sociali tra le due economie e popolazioni, provocherebbe sicuramente un arresto nella crescita economica dei due Paesi, soprattutto in Israele. Facendo un’analisi costi benefici, sembra quasi che la guerra sia economicamente conveniente.

A Betlemme c’è il campo profughi di Aida, addossato al muro di confine tra Israele e Territori. È attivo dal 1950 ed è gestito dalle Nazioni Unite (UNRWA The United Nations Relief and Works Agency for Palestine Refugees). Il campo, all’ombra della barriera di sicurezza israeliana, ospita circa quattromila rifugiati, profughi palestinesi. Visitandolo si può fare un’analisi, nei negozietti sparsi qua e là, dei prodotti Made in Israel presenti. La Palestina rappresenta una delle prime destinazioni dell’export israeliano, soprattutto per beni di uso comune, dallo shampoo alle pile, passando per i cellulari. Come spiega, con voce calma ma piena di rancore, Husam Yacoub: «Qui in Palestina a volte i prodotti cinesi sono più cari dei beni israeliani. I commercianti palestinesi li acquistano perché più convenienti. È l’economia. Impossibile pensare a un boicottaggio: solo grazie a quei prodotti israeliani i piccoli commercianti e l’economia palestinese restano in piedi».

Graffiti nel campo profughi palestinesi di Aida, a Betlemme

Occorre precisare che i prodotti israeliani sono più convenienti perché la Palestina è sprovvista di un aeroporto internazionale e quindi ha l’impossibilità di gestire direttamente il commercio internazionale con le altre nazioni (Paesi europei e Cina). Tutti i beni provenienti dal resto del mondo passano per Tel Aviv, e raggiungono i Territori con dei prezzi su cui gravano le tasse israeliane.

Queste sono alcune delle contraddizioni economiche che caratterizzano e in qualche modo legano Israele e Palestina. Ovviamente durante il mio viaggio ho potuto notare ben altre contraddizioni, forse più interessanti di quelle puramente economiche: storiche, monumentali, psicologiche… Ma ho deciso di partire da quelle economiche per lasciare queste al prossimo post.

“La contraddizione è la regola del vero, la non contraddizione del falso.”      
      Hegel (1801)

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