Ero a New York a fine aprile, nei giorni che precedevano l’anniversario della morte di Osama Bin Laden, per partecipare ad una conferenza sui Memory Studies che si è tenuta alla New School . Una collega americana, Alexandra Delano, insieme a Ben Nienass, presentò un paper sulle vittime invisibili dell’11 settembre: i lavoratori messicani immigrati illegalmente che in quel momento erano nelle due torri. Alexandra, durante la conferenza, disse commossa che, per questi lavoratori immigrati, non c’erano stati diritti né da vivi, né da morti. I loro nomi, infatti, non sono presenti nella lista dei nomi iscritti ai bordi delle due grandi vasche che costituiscono il Memoriale alle vittime dell’attacco terroristico dell’11 settembre. Sono vittime invisibili, appunto.
Mi piacque molto quest’idea di dare voce agli invisibili e decisi che era giunto il momento di visitare il 9/11 National Memorial. Iniziai quindi un lungo percorso attraverso tutta Manhattan per arrivare giù a Downtown. Sapevo di poterci andare soltanto a piedi. Quella passeggiata mi avrebbe preparato a quello che mi stava aspettando. Arrivata nei pressi del sito commemorativo, trovai numerosi cartelli che mi spiegavano dove prenotare la mia visita. Era tutto organizzato in modo efficiente e dopo un’attesa di meno di un’ora ci fu subito il mio turno. Mi trovai in fila in mezzo a molti altri visitatori, guardata a vista da numerosi poliziotti, tutti sorridenti e gentili, ma tanti, così tanti da farmi pensare che ci fosse un pericolo imminente da cui dovermi difendere. Mi fu chiesto di mettere la borsa in un metal detector, per escludere il possesso di chissà quali armi pericolose. Finalmente, dopo un percorso abbastanza lungo e sorvegliato, entrai in un giardino. C’erano due grandi vasche enormi, quasi due gigantesche piscine con grandi muri, lungo i quali scorrevano con forza ed energia immense cascate d’acqua. Notai che non c’era assolutamente nulla che si potesse danneggiare e quindi mi chiesi ripetutamente a cosa servissero tutti quei poliziotti. Mi sembrava che il dispiegare così tante forze di polizia avesse quasi più un valore simbolico che davvero funzionale. Tutti quei poliziotti sembravano dire a tutte le vittime, a cui il memoriale è dedicato: “non abbiamo potuto proteggervi da vivi, ma lo faremo almeno da morti”. In altri termini, il numero dei poliziotti sembrava parlare, almeno a me, del dolore di una nazione e del suo sgomento dinanzi all’impossibilità di proteggere i suoi “figli”, un dolore a cui si reagiva attivando a posteriori una sorta di “militarizzazione della sofferenza”. E’ tuttavia vero che ricorreva, di lì a pochi giorni, l’anniversario della morte di Osama Bin Laden. Ma io ero lì per pregare, non per curiosare e, ovviamente, non per fare danni. Ero lì per commemorare come cittadina italiana ed europea le vittime della violenza terroristica. L’idea che un luogo di preghiera dovesse essere protetto dalle forze di polizia mi sembrò lontana, molto lontana da me, anche se ne potevo ben capire le ragioni.
Il memoriale è bellissimo. Penso di non aver mai visto prima un memoriale così spirituale: tutta quell’acqua che scorre verso il centro, verso una botola centrale che sembra collegarsi direttamente con l’Ade, il regno dei morti. Sui bordi delle vasche sono scritti i nomi delle vittime, almeno di tutti quelli legittimamente riconosciuti come tali dal governo americano. Non c’è dubbio: Michael Arad e Peter Walker, i due architetti che hanno realizzato il design del Memorial, vincendo una competizione a cui sono stati presentati 5200 progetti diversi provenienti da ben 63 nazioni, hanno realizzato un’opera di grandissimo impatto sia estetico, sia spirituale. Le forze della natura completano il quadro, aumentandone il vigore: il vento solleva grandi spruzzi di acqua, bagnando i turisti e facendoli allontanare. Sono quei turisti che, con le loro macchine fotografiche, scattano quasi compulsivamente decine di foto, cercando di esorcizzare così il dolore che provano. Sì, perché visitare il 9/11 Memorial significa provare un dolore lancinante che ti attraversa il corpo e ti fa scendere le lacrime a fiumi dagli occhi. Se prima di questa visiva dubitavo ancora del fatto che i luoghi hanno una loro memoria ed energia, dopo quest’esperienza ne dubito molto meno. Il Memoriale non è un semplice monumento commemorativo: esso sorge esattamente nel luogo in cui sono morte migliaia di persone, esattamente nel luogo in cui i loro corpi si sono dispersi e frantumati. Quel luogo sembra intriso di tutto questo dolore, sembra quasi che lì si sia aperto un varco tra i due mondi, attraverso cui quelle anime continuano a parlarci.
Mentre cercavo sui bordi delle vasche il piccolo spazio vuoto, lasciato da Michael Arad, per inscrivere gli eventuali nomi delle ulteriori vittime che nel tempo avrebbero potuto essere legittimamente riconosciute, all’improvviso ho visto una giovane donna con lunghi capelli neri. Era certamente asiatica. Piangeva silenziosamente dinanzi ad un nome scritto sul bordo della vasca. E’ rimasta lì a lungo. Lei non scattava nessuna fotografia, lei non poteva nascondersi dietro il ruolo di “turista”. Non aveva altra scelta che farsi attraversare da tutto quel dolore. La osservai a lungo, da lontano. Quando se ne ando’, andai nel punto in cui lei aveva lungamente sostato e trovai, accanto al nome di una vittima, una piccola rosa rossa. Mi piace pensare che l’abbia messa lei.
Quel piccolo gesto dice chiaramente che il dispositivo semiotico messo in atto dal monumento commemorativo funziona. Quelle due grandi vasche sono in grado di raccogliere tutto il nostro dolore e quelle grandi cascate d’acqua, che sembrano quasi perenni, hanno il potere di lavare tutta la violenza, tutto il sangue che l’attacco dell’11 settembre ha versato.
Quando finalmente trovai la forza per uscire, ne abbi la certezza: tutta quell’acqua che scorreva senza sosta avrebbe potuto nei decenni, o forse nei secoli, lavare via tutto quell’orrore e ridare pace ai cittadini americani e ai loro cari morti nell’attacco terroristico. Tutta quell’acqua avrebbe aiutato anche noi a ricordare qui in Europa questo dolore e a riconciliarci con la violenza che l’ha prodotto.
L’11 settembre è una data molto difficile nella storia di questo secolo: è una data in cui si è concentrato l’orrore della violenza, nel 1973 prima e nel 2001 poi. Mi piace immaginare che queste grandi cascate d’acqua possano onorare la memoria di tutti questi morti. Questo passato così difficile e così doloroso per tutti non può essere accaduto invano: la cura per questo passato, le parole che usiamo per commemorarlo sono quanto ci resta, per poterlo elaborare, onorare e includere nella memoria del nostro futuro.
L’11 settembre è stato e a lungo rimarrà un tempo e un luogo di grandissima sofferenza per molti cittadini e per molte cittadine del mondo contemporaneo. Ci sono parole e azioni che possono narrare questo “trauma culturale” e al contempo curarne la ferita? Mi piacerebbe pensare che queste mie brevi righe e questa foto possano costituire un ulteriore piccolo passo in questa direzione.