Forse il dolore può essere espresso solo a frammenti. Un po’ perché è indicibile, un po’ perché fa troppo male.
Avevo deciso di non scrivere nulla sui fatti di Brindisi.
Io, che con le parole ci lavoro, ne ero improvvisamente rimasta priva, vittima di un’afasia più che momentanea, di un reumatismo della parola mai successo prima. E poi, troppe parole erano già state dette e scritte sull’argomento, spesso a sproposito.
Ma, seguendo i fatti su giornali e televisioni, ho assistito sdegnata allo sciacallaggio mediatico di una ragazzina di sedici anni, alla sua intimità data in pasto ovunque, sotto forma di fotografie rubate dalla sua pagina Facebook.
Ho visto l’insolenza irrispettosa di giornalisti che, subito dopo la tragedia, si accanivano sui citofoni con l’intento di porre domande a cui mai si potrebbe rispondere.
Ho guardato talk show della domenica che hanno avuto l’ardire di raccontare cose che non potevano conoscere. Quei pensieri e quelle speranze che, probabilmente, Melissa non aveva mai confessato a nessuno.
Allora, mi chiedo: dove finisce il diritto d’informazione e dove comincia il cattivo gusto? Perché sfruttare biecamente una tragedia e perdere il senso del pudore, fino a sconfinare nel cinismo?
Il diritto a informare è legittimo, guai se non ci fosse. Ma è necessario stabilire un confine tra il dovere di cronaca e ciò che, invece, viene spesso trasformato in una forma raffinata di pornografia.
Già penso con disgusto – augurandomi di sbagliare – a chi probabilmente stasera mostrerà l’ennesimo plastico in una trasmissione del servizio pubblico.
Melissa aveva sedici anni, un’età in cui a scuola si dovrebbe morire solo di noia. Il suo mondo di adolescente era un pianeta che non avrebbe mai dovuto essere colpito dalle schegge di sogni infranti.
Così non è stato. E noi non sapremmo spiegarle il perché.
Non abbiamo potuto proteggerla da viva, almeno facciamolo adesso.